Il panico e la stanchezza
Io odio essere stanca.
È un’affermazione probabilmente ovvia e condivisa da chiunque,
dato che non penso esistano tante persone alle quali piaccia particolarmente
essere stanche.
A me non piace neanche riposarmi, o meglio, lo sopporto solo
se dura pochissimo e se sono arrivata a un punto tale di stanchezza per cui la
scelta di riposarmi non è davvero una scelta, ma un obbligo.
Qualche anno fa, mentre avevo appena finito una lezione di
yoga nel salotto di una mia amica, un’altra ragazza che faceva yoga aveva detto
di sentirsi un po’ triste. “Magari sei stanca. A volte è più faticoso dirci che
siamo stanchi e quindi ci diciamo che siamo tristi” aveva risposto l’insegnate
di yoga. Questa frase mi è rimasta in testa, perché io non mi dico mai di
essere stanca, mentre mi dico sempre di essere triste. Non solo me lo dico, ma
poi, non trovando motivi sufficienti che possano avvalorare il mio sentirmi
molto triste, me li invento. Inizio a riflettere sulla mia giornata, su quello
che sto facendo, su quello che non riesco a fare; poi mi allargo e penso alla
settimana successiva, ai mesi, agli anni, ma anche alla settimana passata, al
mese passato, all’anno passato: in pochi minuti raggiungo l’obiettivo e sono triste
davvero.
Nello stesso periodo della lezione di yoga, penso qualche
mese dopo, ero in cucina e parlavo piangente con la mia coinquilina. Era un periodo
in cui piangevo più spesso del solito, cosa che equivaleva a piangere praticamente
sempre. A volte per ore consecutive, altre volte con degli intervalli, a seconda
degli impegni della giornata. Se, per esempio, avevo tante lezioni da fare, era
necessario prendersi molte pause. Pianto breve – lezione – pianto medio –
lezione -pianto lungo. Se facevo delle prove a teatro, che in genere duravano molte
ore di fila, era necessaria una diversa organizzazione: pianto breve – tante prove
– pianto lungo o medio. In alternativa c’era l’opzione di piangere alle prove e
farlo passare come pianto di scena, ma non ci riuscivo molto spesso e finivo
per correre nel bagno per un piccolo pianto di fretta.
Quindi, tornando alla mia coinquilina ferma in cucina appena
tornata a casa dal lavoro, mi aveva ascoltato e poi aveva sentenziato in maniera
spiazzante: “Secondo me piangi perché hai sonno. Quanto hai dormito ieri?”
“Eh, non tanto.”
“Quante sveglie hai messo?”
“Come al solito”.
Per fornire una brevissima sintesi ai fini della comprensione
di questo dialogo, per molti anni io ho messo delle sveglie durante la notte, in
modo da svegliarmi e poi riaddormentarmi, come racconto in modo più esaustivo
qui.
E in tutti quegli anni sono stata convinta di essere molto
riposata anche se non lo ero affatto. Va detto, però, che dopo le sveglie mi riaddormentavo
all’istante e che a volte, assuefatta, non le sentivo proprio (ma le sentiva mia
sorella dalla sua stanza e arrivava arrabbiata a spegnerle). Notavo degli avvenimenti
che non erano molto in linea con l’essere riposata, come il crollo che avevo dopo
pranzo, soprattutto se ero in biblioteca, dove mi coprivo il viso con un
cappuccio e chiudevo gli occhi. O, in generale, i crolli in tanti altri
momenti: durante cene, feste, tragitti lunghi e di sera in autobus (ma anche
brevi e di giorno), spettacoli di teatro. Quest’ultima era una delle categorie
più consistenti. Una volta mi ero iscritta ad un workshop in cui si recensivano
svariati spettacolo che si potevano vedere quasi gratuitamente. Sono pochi
quelli che ho visto tutti interi, senza addormentarmi mai. L’episodio più
terribile è stato quando, seduta in seconda fila, ho attirato gli sguardi di
uno degli attori, che ha iniziato a rivolgersi a me durante un monologo. A
nulla sono valse le gomitate dell’amica seduta al mio fianco, che oscillava tra
la vergogna più profonda e una risata incontenibile.
Quando ho iniziato a dormire meglio ho scoperto che prima
ero stanca.
Ho anche imparato a riconoscere meglio la stanchezza, non
come uno stato perenne ma come uno stato particolare. Ma non ho imparato a fare
qualcosa per mandare via la stanchezza, quell’attività strana e incomprensibile
chiamata dormire.
Quando sono stanca io mi rifiuto di cambiare i miei
programmi. Perché non sono flessibile e perché non sopporto fare meno. Solo che non riesco come al solito nelle cose e allora mi arrabbio. Quindi
divento stanca e allo stesso tempo arrabbiata di essere stanca. Non riesco a fare
nulla. Allora decido che non è vero che sono stanca, per quale motivo dovrei
esserlo? Non c’è nulla che lo possa far pensare. Non sono stanca. E allora perché
non riesco a studiare? Perché non riesco a scrivere? Perché non riesco a mantenere
la concentrazione?
Inizio a trovare delle risposte: ormai non ho più alcuna capacità
di concentrazione, sono sempre distratta, siamo tutti sempre distratti, è un
mondo distratto; non sono più capace di studiare, non so più scrivere, potrei
smettere subito e non provarci più; la mia testa è diventata stupida e non tornerà
più come era prima, è inutile provarci.
Ad un certo punto per fortuna crollo.
Photo by Eric Prouzet on Unsplash
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