In cerca di un'identità


 

A volte, se si incontra una persona nuova, questa persona nuova fa una domanda.

In genere è verso l’inizio della conversazione, subito dopo essersi presentati.

E la domanda è: “Ma tu, che cosa fai?”

A volte a questo “ma tu, che cosa fai” la malaugurata persona decide di aggiungere una seconda parte, e completa la sua domanda specificando: “nella vita”. E io, allora, odio ancora di più questa domanda, perché con quella parola alla fine, “vita”, sembra allargarsi all’infinito. Sembra una domanda così grande e così importante da aver bisogno di risposte grandi e importanti.

E, invece, non solo a me non sembra di avere risposte grandi e importanti, ma non mi sembra proprio di avere risposte chiare e intellegibili.

Certo, potrei rispondere con un elenco scombinato di cose che, a rigor di logica, “faccio nella vita” o, almeno, in alcuni suoi momenti: fare yoga, andare in bicicletta, andare a correre, cucinare, leggere, vedere film lenti, vedere serie tv un po’ meno lente, leggere, andare in montagna, bere tè, andare ad arrampicata, leggere, informarmi sulla crisi climatica, deprimermi per la crisi climatica, provare ad agire per la crisi climatica.

Ma so che quella domanda vuole un’altra risposta.

Io, allora, un po’ entro nel panico. Non credo sia visibile da fuori, in realtà, ho imparato a mascherarlo bene. Per prima cosa, faccio un respiro, magari accompagnato dal suono “eeeh”. È per far capire al mio interlocutore che non riceverà la risposta diretta e precisa che cercava.

Poi inizio la mia frase come non andrebbero mai iniziate le frasi, dico “allora…” e poi “ecco…”. E a questo punto, presa una rincorsa sufficiente, inizio.

Dico frasi spezzettate, una dopo l’altra, come: “insegno inglese ai bambini”; “prima facevo l’attrice, ora no”; “ho studiato drammaturgia”; “scrivo, le mattine scrivo, vorrei scrivere”; “mi sono iscritta a una laurea magistrale per poter insegnare lettere, visto che la mia laurea era inglese e non la riconoscevano”.

In genere, quest’ultima frase è quella che scelgo per la fine del mio piccolo discorso scomposto, perché mi dà l’occasione per dirottare la conversazione sul sistema delle lauree italiane.

Arrivati a questo punto, infatti, si smette di parlare di me e si inizia a parlare del Miur.  

Quasi ogni interlocutore ha qualcosa da dire sul Miur e sul suo malfunzionamento o, in casi molto fortunati, conosce a sua volta una persona che ha avuto una laurea non riconosciuta, come la mia. Il discorso, quindi, prende una nuova piega, diventa molto più piacevole, con un tono di lamentela condivisa in sottofondo.

Ma, nonostante i nuovi sviluppi della conversazione, io sono convinta di aver deluso la persona che mi aveva fatto quella semplice domanda. Non era questo che si aspettava. Si aspettava un’etichetta, un’identità, non una serie di cose senza capo né coda. Non potevo solo dire, che ne so, che insegno inglese ai bambini? Punto e basta. Che scrivo? Punto e basta. Che studio? Punto e basta.

Nessuna di queste definizioni, però, sembra rappresentarmi in pieno.

Il vero dramma è che non mi sento rappresentata neanche da quella serie di frasi spezzettate e mai finite. Mi sembrano troppo confuse, mi sembrano troppe, mi sembrano appena abbozzate.

A volte sogno di rispondere a questa domanda dicendo: “Io faccio l’ingegnere”.


Foto di Fabian Bächli su Unsplash

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