Il panico e il fare fare fare (e le tazzine del caffè)



Qualche anno fa una mattina sono andata con la mia coinquilina a fare la prova per un corso di yoga. Sono arrivata, l’insegnante mi ha detto cosa fare, io l’ho fatto. Mi ha chiesto un po’ di cose, io ho risposto. Poi ho salutato e sono andata via, mentre la mia amica era rimasta lì perché la lezione normale durava di più.

A casa la mia coinquilina mi ha chiesto come mi era sembrata la lezione e ha aggiunto: “L’insegnante ha detto che andavi a tremila”.

“Ma ho fatto le posizioni che diceva lei, come ha fatto a notarlo?” – “Si nota.”

Qualche settimana fa ho parlato della meraviglia della lentezza. E della sua enorme, estrema difficoltà.

Quasi ogni mattina faccio yoga e mi sforzo di non andare troppo veloce. Cerco di tenere le posizioni, cerco di accorgermi del fatto che sto respirando. Devo dire che ho iniziato ad andare un po’ più lenta. Solo che non me ne accorgo dai miei movimenti, ma dal tempo che impiego. Controllo sull’orologio l’ora di inizio e quella di fine. Controllo anche l’ora in vari altri momenti, tra una forma e l’altra, per vedere quanti minuti ho impiegato fino a quel punto. Non credo che sia una soluzione rivolta verso una maggiore rilassatezza.

La lentezza è bella e difficile e si contrappone al panico del fare. Il panico del fare vuole, appunto, sempre fare. Il panico del fare controlla sempre l’orologio, e mette in costante relazione quello che sto facendo con l’orario.

Ho già parlato delle mie liste del liceo, con i minuti segnati per ogni cosa che facevo. C’erano quindici minuti per la merenda, seguiti da un’ora per la versione di greco. Poi un quarto d’ora di movimento, seguito da tre quarti d’ora di studio della scena di teatro. Poi una finestra di mezz’ora per leggere. Se la versione di greco era troppo lunga, chiaramente, il piano doveva cambiare, era una corsa contro il tempo. Se poi qualcuno decideva di chiamarmi, allora era la fine. Il piano crollava.

Ogni cosa non era più la cosa in sé, era un minuto sull’orologio. Non potevo perdermi dentro alle varie attività e vedere dove mi avrebbero portato. Avevo paura di perdermi. Paura, forse, che le cose mi potessero piacere e catturare. Paura che mi facessero perdere i contorni. Quindi le cose erano diventate nomi accanto a degli orari.

E anche adesso che non ho le liste e gli orari (o, almeno, ne ho di meno e di meno precisi), il panico del fare è sempre in agguato e mi dice che non posso perdermi in quello che faccio. Allora a volte me lo dico, me lo impongo, di perdermici, ma non è proprio una cosa facile da programmare.

Negli ultimi giorni il panico del fare è tornato in agguato. Sospetto che sia perché lo avevo un po’ lasciato perdere. È spesso così, con il panico. Quando per un po’ non viene visto lui si fa sentire di nuovo.

Lo avevo lasciato perdere perché, appunto, mi ero interessata alla lentezza. Alla colazione lunghissima con il porridge pieno d’acqua per farlo durare di più mentre leggo Virginia Woolf. Alla pausa caffè con una tazzina a fiori con un piattino coordinato, sempre con i fiori. Il piattino è della misura giusta, perché ci entrano sia un pezzetto di cioccolata sia delle mandorle sia un dattero. E la tazzina non è troppo piccola e quindi ci entra il caffè con il latte di mandorla. In queste prove di lentezza ho scoperto una mia passione sconfinata per le tazzine e i piattini. La pausa caffè è diventato un altro mio momento preferito, leggo un altro libro rispetto a quello della colazione e se è bel tempo posso anche stare fuori. Dato che non vado di fretta a volte mi vengono anche in mente cose da scrivere e le appunto.

Solo che poi il panico del fare ha iniziato a chiedermi: “Scusa, ma è una pausa rispetto a cosa? Cosa hai fatto prima? Per fare una pausa devi aver fatto abbastanza prima; tu hai fatto abbastanza?”

E quindi mi interrogo su cosa ho fatto e mi torna l’ansia del fare fare fare, dell’andare veloce. Scrivo infinite cose sull’agenda, occupo tutto lo spazio e non riesco più a leggere bene che cosa ho scritto. Allora lo riscrivo, usando altri colori. Poi non mi ricordo più quale era l’ultimo colore che avevo scritto.

Però ora ho imparato dei trucchi.

Per prima cosa, ho capito l’ordine delle cose. Ovvero: da piccola pensavo che il modo per mandare via il panico del fare fosse andare più veloce, finire tutte le cose da fare. Non funzionava mai. Il panico aumentava in maniera esponenziale con la fretta. Adesso ho capito che è il contrario: io penso di dover andare sempre più veloce perché c’è il panico del fare; quindi, quando arriva, cerco di andare lenta. È una cosa difficilissima e fallisco molte volte.

Quindi sto cercando di trovare dei metodi per andare lenta senza darmi come obiettivo un vago e complicatissimo “andare lenta”.

Con mio grande stupore, ho scoperto che occuparmi delle faccende di casa aiuta. Fare la lavatrice, mettere a posto. Rifare il letto. Spazzare. Pulire il bagno. Cucinare senza bruciare le cose (questo è un livello più difficile). Queste attività mi impongono il loro ritmo. Più che altro, se io provo a imporre il mio ritmo più veloce, non funziona. Mi cadono le cose, le devo riprendere, Mi scivola qualcosa, si rompe. Verso qualcosa fuori, devo asciugare. Se provo a seguire il mio ritmo veloce ci metto più tempo. Quando le ho finite, posso osservare un risultato concreto e tangibile. Un risultato fuori di me.

Un altro trucco per la lentezza è guardare fuori. Osservare i fiori di cui provo a imparare i nomi. Osservare gli alberi che stanno fermi e il sole che sceglie o meno di arrivare. 

Intanto il panico mi sussurra, imperterrito: “Ma devi fare!” E io, invece, non faccio. Mi ribello. Allora andare lenta diventa ribellarsi e acquista un nuovo sapore.

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