Un anno di pandipanico



Potevo chiamare questo articolo un anno con il panico ma chiaramente avrebbe voluto dire sottostimarlo enormemente. Il panico c’è da molto, molto di più.

Un anno con pandipanico.

Anche questo, in realtà, è un titolo sbagliato, perché ho pubblicato il primo articolo del blog il 5 ottobre dell’anno scorso, quindi è già un anno e un mese, quasi. Ma è meglio così, perché a me non piacciono tanto le ricorrenze. Gli anniversari. I momenti da ricordare.

Mi sembra che i momenti da ricordare si perdano un po’. Si perde la sensazione che mi aspetto da loro, che penso che dovrebbero darmi. Cerco da quei momenti qualcosa e spesso non ottengo nulla.

E, inoltre, le ricorrenze e gli anniversari portano appresso un’enorme aspettativa, l’idea che debba essere tutto meraviglioso, fantastico e perfetto. Le aspettative e il panico vanno molto d’accordo: quando arrivano le aspettative, arriva anche il panico. Ne ho già parlato molto. Accade molto spesso.

Ho parlato delle aspettative legate al compleanno, delle aspettative legate al Capodanno, delle aspettative legate alla domenica, delle aspettative legate agli inizi di qualcosa. Tutte le ricorrenze hanno questo problema. Gli anniversari sono sempre faticosi, allora spesso io faccio accadere qualcosa di faticoso il giorno prima (un litigio è la cosa più semplice), così il giorno dell’anniversario non si pensa a stare bene ma a risolvere quello che va male, che mi sembra di gran lunga più facile.

Un’altra cosa legata alle ricorrenze è chiedersi: che cosa è cambiato? Quindi ora potrei chiedermi: quali cose sono cambiate da quando ho iniziato a scrivere pandipanico?

Posso citare dei nomi a caso come matrimonio e pandemia, anche vederle nella loro combinazione. Però non mi va tanto, mi sembra ridondante.

Ho deciso quindi di pensare ad altre cose, che siano piccole e meno invasive e che siano cambiamenti per i quali non scomodo i massimi sistemi, non crollo nella nostalgia, non mi dico quanto sono brava o quanto ancora non so fare. Sono le prime cose che mi vengono in mente, senza starci troppo a pensare.

Quando vado a correre a Villa Ada, invece di correre poco e lamentarmi tanto (per tutto il percorso), corro tanto e mi lamento poco (solo quando quelli in bici mi alitano sul collo senza mantenere la distanza, ma in realtà non mi lamento, urlo contro di loro).  

Quando uso un piatto o una pentola in cucina li lavo (quasi) sempre. A nota solo le volte in cui non lo faccio. Io quelle non le noto mai.

Quando faccio il tè la mattina, lo conservo sempre in un thermos e continuo a berlo all’infinito invece di stufarmi e buttarlo. È una cosa che sembra inutile da notare, ma le mie mattine passano scandite dal mio riscaldare il tè (il thermos lo tiene caldo, ma per me non abbastanza) e questo dà un ritmo a tutto quanto.

Quando mi arrabbio, dico che sono arrabbiata. Poi mi arrabbio lo stesso. Però lo dico.

Quando ci resto male perché A mi dice: “Per favore, puoi rallentare? Stai andando troppo veloce, stai parlando troppo veloce” io ci rimango male ma poi lo provo a fare. Però decido anche che a me piace di più andare veloce, e mi adeguo a questa cosa per andargli incontro, non perché è una cosa sbagliata. 

Quando non vedo un’amica o un amico per un po’, non penso che non ci vedremo mai più. Questo pensiero però non è merito mio ma di una cosa chiamata lockdown, perché quando ho rivisto gli amici ho scoperto che c’erano ancora, anche quelli che non ho rivisto ma solo sentito. Questi ultimi sembra ci siano, almeno.

Quando arriva il panico, io lo saluto. Mi sembra carino salutare. Prima, quando c’era il panico, dicevo: “Non c’è il panico, va tutto bene!”. Quindi secondo me il panico si urtava un po’, per non essere considerato,  voleva farsi sentire sempre di più, sempre con più forza, e faceva peggio. Ora invece dico: “Ho il panico!” e lo saluto.

Quando il panico va via, cerco di non pensare che sono sbagliata.

Non elenco tutte le cose legate al pianeta perché faccio già abbastanza articoli sull’argomento e credo non sia molto giusto infilarlo sempre e comunque ovunque.

Un’altra caratteristica degli anniversari è la malinconia. A me piace la malinconia. Forse mi piace troppo. Forse ci crollo dentro. Forse mi ci cullo un po'. 

Ma ho smesso di farla andare via. Principalmente, perché è una battaglia che non vincerò mai. E poi, perché ho capito che a me non va di farla andare via. Certo, potrei imparare a crollarci meno dentro, a non piangere sconsolata se è sera e sono appena tornata in montagna e tutto mi ricorda altro e A mi guarda e dice: "Ma vuoi tornare a Roma?" e io gli dico: "Il punto non è Roma o qui, il punto è il tornare nei posti e l'andare via dai posti."

Non mi va di farla andare via perché, a volte, la malinconia porta delle cose. Se una luce ricorda altre luci, un libro un altro libro e un momento un altro momento, più luci, più libri e più momenti sono contenuti in uno solo: è conveniente.

Commenti

Post più popolari