Leggere a pezzi - Natale



La metro è un grande luogo per leggere, soprattutto se ci si siede e se si fanno viaggi lunghi.

Qualche giorno fa ne parlavo con una mia amica, con la quale abbiamo decretato che gli spostamenti in treno sono ottimi per la lettura, così come i lunghi viaggi in metro. Al contrario dell’autobus, con i suoi cambi di velocità, le sue curve e le fermate, che spingono a controllare sempre il percorso, in metro ci si può permettere di distogliere l’attenzione da ciò che accade fuori.

Quando vado all’università salgo al capolinea della metro e trovo sempre posto. Il grande vantaggio, poi, è che anche tutti gli altri passeggeri lo trovano e quindi non devo alzarmi per far sedere qualcuno. Durante il tragitto mi capita spesso di alzarmi, in genere per far sedere signore un po’ grandi, ma non tutte apprezzano questo mio gesto. Anche se c’è chi ringrazia calorosamente e mi saluta con affetto al momento di scendere, c’è anche chi rifiuta con forza e con uno sguardo offeso (va detto che io, prima di proporre il mio posto, cerco di fare un’analisi dell’età della persona e della sua probabile fatica a stare in piedi, ma è un’analisi molto rapida, per paura che la persona in questione possa considerarmi maleducata per non cederle il posto. A volte la metro può essere un posto di intensi pensieri).

Prendere la metro al capolinea, inoltre, mi dà una sensazione di tranquillità molto diversa dal totale abbandono che mi coglie quando la aspetto a un’altra fermata. In quei casi sono in balia di un tempo non misurabile, che si stende davanti a me e che non so quando avrà fine. Se salgo sulla metro, invece, almeno so di essere salita. Il treno è lì, deve solo partire, ma esiste e io ci sono dentro.

In questi mesi, perciò, il vagone della metro è diventato un angolo di lettura raccolto. Anche qui, i libri si mischiano al luogo in cui vengono letti, così come diversi libri si mischiano tra loro.

Ho iniziato ad andare all’università a settembre, con Night and Day di Virginia Woolf. È durato per un’unica settimana, perché in quel periodo ancora non avevo ripreso a dare lezioni ai bambini e avevo interi pomeriggi per leggere. La settimana dopo, quindi, ho fatto il viaggio con LIdiota, che mi ha accompagnato per qualche settimana con le sue notti bianche lunghissime e discorsi altrettanto lunghi e bellissimi. Unico inconveniente di leggere un libro voluminoso sulla metro: tenerlo con una mano sola quando si sta in piedi fa venire male al polso.

Dopo la pausa del Covid, da qualche settimana mi fa compagnia Middlemarch, per continuare con la mia immersione nella provincia inglese di George Eliot. Ora mi trovo nella situazione in cui da una parte non vorrei arrivare alla fine, mentre dall’altra sto cercando di sbrigarmi ad arrivarci, perché vorrei ritrovarmi senza un libro da leggere il giorno di Natale, in modo da poterne iniziare uno (o più) di quelli che riceverò.

A Natale ricevo sempre quintali di libri (che seleziono io e, in molti casi, compro anche io da varie librerie indipendenti, per evitare che mi vengano comprati su Amazon. Poi arrivano in diverse scatole a casa dei miei, che vengono tutte sistemate nella mia vecchia stanza, che in questi giorni è un centro di smistamento per i regali di tutta la famiglia.)

Il Natale si riempie sempre delle immagini dei libri che ho letto negli anni precedenti. E, di conseguenza, tanti libri mi ricordano il Natale anche se non hanno nulla di natalizio, ma solo per il semplice fatto di essere stati letti in quel preciso momento.

Per due anni ho legato il Natale a Elizabeth Strout a causa di My Name is Lucy Barton, che mi ha regalato due anni fa mia madre, e un suo seguito, Oh William. Persino mio padre è stato attirato dall’interesse mio e di mia madre per questo libro, dopo aver ascoltato questa mia descrizione: “Non succede nulla, ma è bellissimo”. Quel nulla (che poi, ovviamente, è pieno di cose, così come possono esserlo le storie raccontate con cura per i dettagli) mi ha tenuto per un giorno e mezzo tra le sue pagine, appena arrivata in montagna. Non ricordo che altro ho fatto, so solo che volevo finire qualunque cosa facessi per potermi mettere a leggere.

Due anni fa, a Natale, ero anche immersa nel quarto volume della saga dell’Attraversaspecchi e in Normal People, in questo secondo caso spinta dalla curiosità del grande successo e dal grande disappunto di varie mie amiche. Il mio verdetto è stato che l’ho letto di fretta, mi è pure piaciuto abbastanza, ma poi non è che si sia legato al Natale più di tanto. Non è entrato dentro alle cose con le sue parole e le sue immagini, ma è rimasto in superficie.

Nel riesumare vecchi fogli e vecchie liste di quando andavo in quarto ginnasio ho ritrovato una lista di cose da fare nelle vacanze di Natale, tra cui spicca la lettura dei seguenti libri: La Piccola Dorrit, Manuale per Apprendisti Maghi, I Promessi Sposi, delle storie di Natale di Topolino, Le Cronache di Narnia e delle vaghe “enciclopedie”.

Erano vacanze che, a giudicare dalla lista, si sarebbero dovute estendere per un tempo infinito, dato che, oltre a queste letture, avrei dovuto, tra le altre cose, imparare a fare la verticale, andare al bowling e a pattinare sul ghiaccio e fare l’albero genealogico di tutta la mia famiglia.


Qui la puntata di novembre. 


Questi i libri citati: 

Night and Day (Il Giorno e la Notte), di Virginia Woolf 

L'Idiota, di Fedor Dostoevskij

Middlemarch, di George Eliot

My Name is Lucy Barton (Mi chiamo Lucy Barton) e Oh, William!, di Elizabeth Strout 

L'Attraversaspecchi, vol. 4, di Christelle Dabos

Normal People (Persone normali), di Sally Rooney



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