Il panico e il consumismo
Ho iniziato questo articolo varie volte senza trovare l’incipit giusto.
Forse è un po’ un inizio furbo, ammettere di non avere un
inizio. Il mio professore di italiano al liceo diceva che potevamo scrivere un
tema contestando la traccia, ma dovevamo contestarla bene. Forse una volta ci
ho provato, ma non mi sembra fosse andata molto bene.
In realtà quello che c’è da dire sul consumismo si può
riassumere in mezza riga: il consumismo non va bene. Punto. Fine.
Si può elencare in cosa non vada bene, ma anche qui si può
sintetizzare: tutto.
Il consumismo non va bene ma io trovo difficile non caderci
dentro.
Trovo difficile non caderci dentro anche se sto attenta a
tutto quello che compro o, meglio, a quello che non compro. Anche se assillo
con il mio panico chiunque voglia farmi un regalo, e nessuno sa più cosa è
consentito regalarmi. Assillo le persone intorno a me se comprano troppe cose e
se le comprano su Amazon. Addito ogni pacco di Amazon recapitato ad A qui in
montagna.
Poi però scopro che il mio cervello è abituato alla facilità
del consumismo. Alla sua velocità. Alla sua assenza di rischio.
È abituato a desiderare una cosa, a premere un bottone e a
vederla recapitata alla porta di casa, come per magia. Come il topolino che
porta un regalino quando cade il dente.
Uno dei bambini a cui faccio lezione l’altro giorno ha
ricevuto delle lucette per le bici dalla fatina dei denti. Un altro riceve ogni
giorno, nel suo calendario dell’avvento, dei piccoli regalini portati da “degli
orsetti magici”, mi ha spiegato lui. Gli orsetti sanno se è stato bravo oppure
no.
Ecco, a me sembra di essere come questi bambini che ricevono
i regali dagli orsetti o dalle fatine. Faccio un ordine e qualche fatina mi porta
quello che ho ordinato. Non devo neanche essere brava per poterlo ricevere. Devo
solo impedire alla mia testa di pensare alle fatine sfruttate.
Per fortuna, il mio panico non è sempre bravo a spegnere la
testa. Più deve spegnerla, più lui la accende. Ci pensa ossessivamente.
Allora, per smettere di pensare ossessivamente, devo fare cose
diverse.
Quest’anno, per i regali di Natale, ho iniziato a contattare
diverse librerie, molte tramite Bookdealer, altre contattandole io stessa e
vincendo il mio panico a scrivere a persone sconosciute.
Ho intrattenuto conversazioni quotidiane con una libraia inglese
di Trastevere, che mi ha detto che quattro dei libri ordinati li aveva ma che per
gli altri quattro andavano aspettate tre – quattro settimane. Ho letto “quattro
settimane” e ho pensato: “Assurdo”. Poi ho riflettuto che difficilmente leggerò
otto libri in venti giorni, tenendo conto anche di tutti quelli che ho portato
qui in montagna.
Ho mandato mail a persone mai viste di un’altra libreria che
mi hanno offerto consigli e abbracci virtuali e ho imprecato insieme a loro quando un
corriere, senza nemmeno avvertire, si è rifiutato di fare le consegne a Roma, dicendo che ci sono criticità,
e ne hanno dovuto chiamare in fretta un altro, che dovrebbe andare a ritirare
il pacco oggi. Al momento, non si sa se questo pacco arriverà in tempo per
Natale. Si spera di sì, ma non si sa.
Mentre facevo tutti questi passaggi lenti e graduali e, soprattutto, mentre imprecavo per il corriere, mi sono resa conto che la mia testa considerava questi tempi dilatati e queste incertezze delle enormi ingiustizie. Delle grandi disgrazie. I regali non arriveranno per Natale! Intollerabile. La mia testa, prima che potessi riuscire a controllarla, mi ha detto: “Dovevi ordinare premendo un bottone dalle fatine schiavizzate”.
(Nel frattempo però A con mio stupore sembrava non porsi proprio il problema del ritardo, del Natale, dei regali, ridacchiando perché per lui è a prescindere una celebrazione del consumismo. La festa della Coca cola insomma.)
Poi ho letto questo articolo qui, che dice molte cose che sapevo,
altre che immaginavo, qualcuna che ignoravo. Ma, soprattutto, dà un volto, un
suono e una disperazione ai bottoni che io premo.
E rende più facile continuare ad essere assillante. Rende più
facile essere un po’ rigida, fissata. Forse lo sono. Forse non so fare eccezioni.
Ma forse il punto è smettere di fare tutte queste eccezioni, di comprare una
cosa e poi ridere della spinta che mi ha fatto premere un bottone di troppo,
dire che ho esagerato, che ci vuoi fare, ma mi andava e allora vabbè.
Le mie eccezioni sembrano quasi carine, quasi simpatiche, tanto
umane.
Ma le mie eccezioni consumano le scarpe delle fatine.
Molto bello, come sempre!
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