La stanza

 


Io non salto mai gli appuntamenti fissi.

Se proprio accade, lo faccio a costi talmente alti da farmi pentire della mia scelta.

In questo modo saltare l’appuntamento non diventa più un sintomo di libertà, ma un errore madornale del quale pentirsi per sempre. E perde tutta la sua bellezza.

Questa volta, però, non ho scritto qui per qualche venerdì e non mi è sembrato di aver fatto un errore terribile. O, almeno, non troppo terribile.

Sono stata una settimana a Londra per una residenza teatrale, una settimana di giornate infinite in cui la sera sembrava appartenere a un giorno diverso rispetto alla mattina. I giorni erano scanditi da prove, spettacoli e incontri con simpatici manager letterari di teatri inglesi che ci offrivano tè e orribile caffè e che alla domanda: “Mettete mai in scena testi di autori internazionali?” facevano seguire una lunga pausa e poi dicevano: “Ibsen”.

Però i teatri erano belli.

Sono tornata a Roma con una lista infinita di cose da fare e di domande alle quali non riuscivo a dare una risposta. Perché non vado più a teatro, e neanche al cinema? E perché non vado più nei posti con le persone? Perché non mi diverto più?

Una risposta semplice e a portata di mano era “per la pandemia”, ma non mi è sembrata sufficiente. Voglio dire, certo, ha contribuito. Ma arrivati a questo punto mi è iniziata a sembrare una scusa un po’ zoppicante, che non basta più. Ho capito che a partire dalla pandemia si è infilato qualcos’altro nella mia mente, una pigrizia recondita, un rifiuto a uscire di casa e ad affrontare il mondo, un rifiuto che è da sempre in agguato e che con il covid ha raggiunto la sua vetta più alta.

Questo rifiuto non ama il divertimento, né le persone. Ha paura di fare tardi e ha paura di uscire di casa.

Ma, a Londra, ha scricchiolato. Per prima cosa, ero sempre circondata da persone. Per seconda cosa, a Londra il covid non esiste, come possono testimoniare le persone pigiate sulla metro o riunite a centinaia in un teatro senza mascherina. Dopo i primi dubbi iniziali ho abbandonato la cautela e ho deciso di partecipare a questa idea collettiva londinese, arrendendomi all’idea di prendere il covid. D’altra parte, meglio lì che prima di partire.

Ovviamente il covid me l’ha attaccato un bambino a cui faccio lezione una settimana dopo essere tornata a Roma.

E quindi, al posto di teatri, cinema, pub, locali, discoteche, ristoranti, parchi, mostre e musei, da giorni sono isolata nella mia vecchia stanza a casa dei miei genitori. Passato l’orrore iniziale, anzi, la disperazione totale (ed eccessiva, diciamolo) dell’inizio, poi mi sono abituata.

La colonna sonora delle mie giornate è scandita dalle urla mie e di mia madre oltre le porte che ci separano, in cui lei mi dice di mettere fuori dalla stanza il carrello con cui mi porta il cibo e io le grido che mi è finita l’acqua e dovrebbe rimetterla.

Per il resto, mia madre canta a volumi improbabili canzoni di sua invenzione e parla con il gatto. L’argomento di conversazione preferito è l’imminente arrivo della gattina che i miei hanno deciso di adottare, che viene presentato in questo modo al gatto: “L’arrivo della sorellina sarà meraviglioso, sarà bellissimo. Vedrai, ti piacerà tantissimo.” Se il gatto fosse un bambino in attesa di un fratellino forse potrebbe pensare che questa eccessiva presentazione delle meraviglie della sorellina sia fatta per neutralizzare sul nascere un suo possibile dissenso.

Nella mia camera, intanto, sto scoprendo tesori meravigliosi tra i miei vecchi fogli e quaderni accumulati negli anni, come liste di cose da fare di quando andavo alle medie, in cui si trovano “levare la vernice alle matite”, “informarmi sulla specie delle mie scimmie peluche” e “esercitarmi con la mano sinistra”. Il ritrovamento più bello in assoluto è stato un contratto stilato da me e mia sorella per la “realizzazione di produzioni cinematografiche”, in cui il suo ruolo è quello della segretaria, che “scriverà su un quaderno le decisioni prese nelle varie riunioni e tutto ciò che occorre in ogni singola produzione”, mentre il mio sarà quello di dirigere i film e coordinare “tutto ciò che occorre in ogni singola produzione”. Si istituisce una riunione settimanale ogni sabato alle sei del pomeriggio e si ricorda che “bisognerà conservare un comportamento maturo, decoroso e serio”.

Ho riletto del mio viaggio a Vancouver a novembre del 2010 e di quello con i miei genitori e mia sorella a New York pochi mesi dopo. Di quando sono andata per la prima volta a Londra da sola, e anche di quando mi ci sono trasferita. Ho visto che ero un po’ una lagna, quando mi ci ero trasferita, stavo sempre a lamentarmi.

Forse ancora subisco il fascino avvolgente della mia stanza, anche se, in questo caso, non ho molte alternative. La stanza che, ogni sabato, mi sussurrava all’orecchio: “Non te ne andare” e che, ogni giorno, all’ora di pranzo, dopo scuola, mi diceva: “Sei tornata” e che quando chiudevo la porta mi ricordava: “Ora sei sola”.

Ma forse non è vero, perché ora la mia camera non parla più. La voce di mia madre che fuori parla con il gatto è molto più forte.  

 

Photo by Clay Banks on Unsplash

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