Il panico e l'arrivo dell'estate
Ad un certo punto, quando faceva abbastanza caldo, io e mia
sorella iniziavamo a mettere i pantaloncini corti per andare a scuola. Era un
momento importante, perché voleva dire che l’estate era arrivata. Anche se, in
realtà, l’estate sarebbe arrivata solo il 21 giugno, quando la scuola era già
finita da un bel po’ di giorni. Ma per me l’estate arrivava quando si mettevano
i pantaloncini corti.
Quando ci penso vedo me alla fine della seconda o terza
elementare, seduta sul palco di legno del piccolo teatro della scuola, mentre con
la classe facciamo le prove per lo spettacolo di fine anno. Indosso dei pantaloncini
rosa chiaro con delle rose e delle violette disegnate sopra.
Probabilmente ricordo quel momento perché mi sono detta,
nella testa: “Ora è estate”.
Appena me lo dicevo, c’era subito un’altra cosa che dovevo
fare, un altro rito di inizio estate: la doccia ghiacciata. Nella vasca di casa
contavo fino a tre, trattenevo il respiro, afferravo la cornetta della doccia e
venivo subito invasa dall’acqua gelata, mentre un brivido saliva lungo tutto il
corpo. Poi, nella mente, mi dicevo: “Ora è estate”.
Dopo qualche giorno la scuola finiva e si apriva una distesa
infinita.
Se chiudo gli occhi, la vedo ancora, questa distesa infinita,
anche se esiste solo nella mia mente. Ma è puntellata di alcune immagini precise.
Di rumori, o, meglio, di silenzio. Di qualche odore e di qualche sapore. Ma,
soprattutto, di colori. Ho già parlato, qualche settimana fa, dell’Odore della primavera. In estate, invece, ci sono i colori. O, meglio, le ombre.
La distesa infinita è piena di luce gialla, abbagliante, ma
è anche piena dell’ombra dietro alle persiane, accostate per non far diventare
la casa troppo calda. Io mi aggiro nella penombra, mi ci abituo, e dimentico
che fuori il sole è abbagliante. Cammino lentamente, osservo i miei piedi che
si muovono nella distesa infinita che è d’estate il pavimento del corridoio.
Nella distesa infinita io sono sdraiata in cima al letto a
castello e leggo. C’è il frigorifero che si apre in cerca di qualcosa di
freddo.
C’è il telefono di casa che squilla e una mia amica che mi
invita in piscina o a casa sua. C’è la mia reazione felice se sono bambina, la
mia reazione incerta e preoccupata se vado al liceo.
Ci sono le cartucce per la penna stilografica che compro il
primo giorno di vacanza, appena finito il quarto ginnasio, il cartolaio sotto
casa mi chiede perché inizio già i compiti, devo riposarmi. Io non voglio
iniziare i compiti ma scrivere una storia, però non lo dico e torno a casa con
una strana sensazione di fastidio. Forse dovrei uscire fuori, nel sole. Ma
quando il telefono squilla, a me viene la paura.
Quindi resto nella penombra e spio il sole da fuori. A volte
mangio un ghiacciolo e, se non mi angoscia troppo, un gelato. Bevo litri di tè
freddo. Sprofondo nelle storie per dimenticare la distesa infinita. Ma la
distesa infinita si moltiplica dentro alle storie, e mi avvolge. Dove sono le
storie e dove sono io? A volte non mi ritrovo più, fuori dalle storie non c’è
nulla, e allora torno dentro.
In questa distesa infinita c’è anche il panico. Oscilla tra
il dire che devo uscire fuori e il non perdere nulla, fare qualunque cosa possibile,
e tra perdersi nel mio desiderio di scordare tutto e stare soltanto dentro le
storie.
Quando c’è troppo silenzio accendo la televisione e vedo
impensabili serie televisive, orribili, se ho tredici anni e non c’è altro da
vedere. Ma non le vedo veramente, leggo, mi fanno solo compagnia. Vedo film in
bianco e nero se sono al liceo, quando finiscono male divento triste e inizio a correre su e giù per le scale.
Insieme alle luci e alle ombre, c’è anche una strana
debolezza. La testa è pesante per il caldo e vedo tanti puntini colorati quando
mi alzo dalla sedia. Ma quasi mi piace, questa pesantezza, quando non è troppa,
perché mi fa adattare meglio al ritmo lento della distesa infinita.
Un po’ di giorni fa sono rimasta a Roma per un po’ e, appena
arrivata, essendo abituata alla montagna, ho sofferto tantissimo il caldo. Ma
dopo un paio di giorni mi sono abituata. O, meglio, ho ritrovato la testa pesante
dell’estate e i piedi lenti nel corridoio. Ho fatto il tè freddo, ho ritrovato le finestre socchiuse. Mi sono addirittura imposta di fare una doccia gelata.
E poi, all’improvviso, ho visto la distesa infinita.
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