Il panico corre per le scale
Quando ero piccola passavo una grande parte del mio tempo libero
per le scale.
Non nel senso che rimanessi chiusa fuori di casa, evento che
è accaduto qualche volta ma, devo dire, molto più raramente di quanto sarebbe
prevedibile vista la mia sbadataggine. L’ultima volta che mi sono chiusa fuori
di casa è stato due anni fa, dopo arrampicata. Pregustavo la doccia e la
merenda che avrei potuto fare in quella mezz’ora di tempo prima di andare a dare
ripetizioni, e invece mi sono accontentata di restare in tuta e fiondarmi al
supermercato biologico sotto casa per non morire di fame. Poi sono anche morta
di freddo, una volta finite le ripetizioni, perché ero vestita troppo leggera e
vagavo per le strade. A. era a studiare in biblioteca ma non sembrava molto propenso
a tornare presto, come se non avesse capito che ero rimasta fuori di casa. In
effetti, avevo poi scoperto, non l’aveva capito. “Pensavo che se ti fossi
chiusa fuori saresti entrata nel panico, ma invece dai messaggi che mandavi eri
tranquilla” mi aveva detto dopo aver capito perché continuassi a gironzolare per
la strada invece di tornare a casa, ed era partito in bici dalla biblioteca per
aprirmi.
Comunque, ritornando alle scale, ci passavo un sacco di
tempo. Le scale del palazzo dei miei genitori sono belle, perché hanno lo
spazio vuoto in mezzo, in cui passa l’ascensore, e sono luminose, perché hanno
una finestra intermedia tra un piano e l’altro, che dà sul giardino. Per tutte
le medie e per buona parte del liceo, se i miei genitori o mia sorella non mi
vedevano in casa, sapevano che ero per le scale. A volte si affacciavano alla
porta e mi chiamavano per dirmi che la cena era pronta o che c’era qualcuno al
telefono per me.
A questo proposito, quando andavo alle medie, c’era una
ragazza, Emanuela, che veniva in classe con me, e che quasi ogni sera mi
chiamava per farsi dettare i compiti. Io, non so per quale motivo, lo facevo.
Non eravamo neanche amiche. Poi, verso la fine della terza media, ho provato un
enorme senso di ingiustizia e ho smesso. Non è che gliel’ho detto, che era
ingiusto. Facevo rispondere mia sorella e lei diceva che non c’ero. Quindi
questa Emanuela, quando mi chiamava, spesso aspettava un sacco di tempo prima
che io rispondessi, perché se ero per le scale dovevo risalire. E una volta mi ha
detto: “Certo che casa tua è grandissima, se per arrivare al telefono ci metti tutto
questo tempo.” E io non mi ricordo che cosa ho risposto, ma ho immaginato per
un attimo la mia vita nella testa di Emanuela (che ovviamente, in quanto non
mia amica, non era mai stata a casa mia), una vita in una casa enorme e
bellissima e allora per un attimo ci ho creduto anche io.
Non so che cosa le ho risposto, sulla mia casa, ma di sicuro
non le ho parlato delle scale, perché era una cosa della quale mi vergognavo.
Mi vergognavo anche se alcune persone del palazzo mi vedevano fare su e giù, e
allora avevo escogitato dei sistemi per nascondermi. L’ascensore dei miei
genitori ha tutte le pareti di vetro, quindi io ero visibile per chi si trovava
al suo interno. Ma c’è un punto, dove si trovano i pulsanti, in cui c’è un’asse
di legno. Quindi io avevo imparato a posizionarmi, sul pianerottolo, in
corrispondenza dell’asse di legno. Sapevo qual era l’unico punto dei pianerottoli
che non poteva essere visto da chi era dentro l’ascensore, perché coperto dall’asse
di legno, e mi mettevo lì. L’asse di legno era un po’ stretta, quindi dovevo
stare attenta a non muovermi, come quando, alla fine di Tutti insieme appassionatamente,
la famiglia Von Trapp si nasconde dietro alle statue del cimitero delle suore.
Affinché questo nascondiglio potesse funzionare, però, era
necessario un altro passaggio: dovevo sapere a quale piano fossero dirette le
persone nell’ascensore. A nulla sarebbe servito nascondermi dietro all’asse se l’ascensore
si fosse fermato al pianerottolo in cui mi trovavo. A furia di passare il mio
tempo per le scale avevo imparato le case di tutti. Riconoscevo i condomini
dalla voce, dal passo, dalla testa che appariva appena varcato il portone, dai
vestiti. E quindi sapevo a quale piano correre per mettermi in salvo. Certo,
quando c’erano ospiti non era possibile prevederlo, a meno che io non avessi
sentito un citofono squillare e avessi identificato da quale casa stesse
suonando. Oppure, non tutti prendevano l’ascensore, gli abitanti dei primi due
piani salivano a piedi, ma in quei casi bastava correre velocemente ed arrivare
agli ultimi piani per nascondersi. L’evento per cui non ero preparata era se
qualcuno usciva di casa: se l’appartamento era sul pianerottolo su cui ero in
quel momento, non c’era niente che io potessi fare: potevo solo limitarmi a
salutare e continuare per la mia strada.
Il motivo per cui non mi piaceva farmi vedere per le scale
era il fatto che era ovvio che non stavo andando da nessuna parte, non stavo
entrando né uscendo ma, appunto, stavo andando per le scale. Era ovvio perché ero
in tuta, o perché non avevo la giacca, anche in inverno, o perché non avevo l’ombrello
se diluviava. Quindi mi nascondevo, e alla fine avevo trovato un ulteriore
divertimento in questo mio scappare e nascondermi. Nonostante tutte queste mie
precauzioni, però, ho in seguito scoperto che un condomino aveva detto a mia madre,
per riferirsi a me: “sua figlia, quella che va sempre per le scale”.
Andavo per le scale perché mi volevo muovere e a casa non c’era
spazio o, almeno, non abbastanza. Avevo iniziato alle medie, quando ero troppo
piccola per andare a correre per conto mio, e avevo proseguito anche dopo, perché
mi ero appassionata. È vero, sarei potuta andare a correre al parco, ma questo
era più a portata di mano. E si poteva fare in qualunque momento, anche se pioveva
o se era buio. Appena mi sentivo troppo stretta, potevo subito uscire fuori e
muovermi. Mentre correvo per le scale, immaginavo altre cose. Le scale
diventavano altri luoghi e mi dimenticavo dove ero. Oppure le scale si
fondevano ad altri posti, e la luce che entrava dalle finestre diventava la
luce vista da altre parti, così come le porte che si aprivano diventavano altre
porte e le teste delle persone teste di altre persone.
Di recente ho scoperto che applico il sistema delle scale anche
durante le passeggiate in montagna. Solo che la cosa comoda di essere da un’altra
parte mentre si va per le scale è che i gradini sono sempre uguali ed è quindi
difficile inciampare. La stessa cosa non
si può dire della montagna. Qualche settimana fa, durante una passeggiata, A. mi
ha detto: “Ho capito perché inciampi sempre: non guardi mai per terra, ma da
altre parti”.
Photo by Paweł Bukowski on Unsplash
Commenti
Posta un commento