Il panico e i nomi



Quando ero piccola davo i nomi alle cose. Sembra una cosa tanto bella e romantica, ma in realtà io mi ero abbastanza fissata, ed era diventata quasi un'ossessione. 

Qualche mese fa, rileggendo vecchi diari, ad un certo punto mi sono imbattuta in frasi di questo tipo: "Ho usato la telecamera, che ancora è senza nome", oppure: "Sto scrivendo con ........ (e qui c'era il nome che avevo dato alla penna, solo che non mi ricordo quale fosse). Anche i quaderni sui quali scrivevo avevano dei nomi, uno si chiamava Aquila Indiana (credo perché sulla copertina c'era disegnata la piuma di un indiano) e un altro si chiamava Bianca (era un quaderno totalmente bianco. Non avevo una grande originalità per i nomi dei quaderni). 

Davo i nomi a tantissime cose e, per scegliere quello giusto, riflettevo intensamente e stilavo liste con le possibili opzioni. Poi mi vergognavo di questa cosa dei nomi, anche perché ho continuato a farla per un bel po', credo fino a tutto il ginnasio, e quindi davo i nomi alle cose ma li tenevo per me, li ripetevo nella testa e basta. 

Quando ero più piccola, in prima media, a scuola avevamo letto un testo in cui il protagonista aveva un amico immaginario. Non ricordo che testo fosse, era sul libro di antologia, ma lo scoprirò a breve. Ho infatti deciso che quest'estate, al posto della rilettura dei diari fatta l'anno scorso, mi dedicherò alla rilettura di quaderni e libri di scuola. Ho conservato solo i libri di italiano (più due superstiti di latino e greco) ma tanto sono gli unici che ho intenzione di rileggere. Ho avuto questa idea la scorsa settimana, mentre camminavo in montagna e parlavo della caviglia che mi faceva male in un modo nuovo. Ho detto: "C'è qualcosa di nuovo" e da lì, prima che riuscissi a fermarmi, ho iniziato a ripetere quasi tutto L'Aquilone di Pascoli. 

Quindi, tornando al testo del bambino immaginario, in classe ci eravamo appassionati in molti, perché il bambino del libro di antologia parlava dell'amico immaginario come se fosse una persona vera. Ne avevamo parlato ed io mi ero inserita volentieri nel discorso, perché mi sembrava, per una volta, un argomento giusto per me, non come tutti gli altri argomenti dei quali si parlava, che presupponevano che si volesse crescere e si ammettesse di stare crescendo. L'amico immaginario, invece, era un argomento che presupponeva voler rimanere piccoli. 

Molti avevano deciso che avrebbero avuto degli amici immaginari. Anche io lo avevo deciso. Sapevo che molti avrebbero desistito, ma io no, perché il mio entusiasmo non era mai passeggero e volubile (o, forse, perché dall'entusiasmo passavo subito al senso del dovere).

Mi sembra che i due amici immaginari si chiamassero Mattia e Michele. Anche in questo caso, non una grande originalità nei nomi. Facevo dei disegni su di loro e inventavo delle storie in cui erano i protagonisti. A volte, la sera, se li avevo per un po' dimenticati, uscivo sul balcone della camera che dividevo con mia sorella e iniziavo a parlare con loro nella mente. Mi sembrava che avere degli amici immaginari rendesse più speciale la mia vita monotona. La rendeva una vita più simile a un libro; cosa che, come ho già detto varie volte, era la mia più grande aspirazione. 

Quando gli amici immaginari sono andati via, sono rimasti i nomi delle cose. 

A volte ancora li ritrovo, che cercano di fare capolino. Non sono nomi che scelgo di dare, ma modi che uso per chiamare qualcosa che già possiede un suo nome. Oppure, noto la sensazione di quando imparo un nome nuovo. Con A in questi giorni passiamo i momenti liberi a cercare mattonelle per la casa nuova. Tutte le persone a cui ne parlo sembrano ritenerla un'attività molto emozionante, io ho dei dubbi. Di sicuro non è un'attività che piace particolarmente al mio panico per le scelte. Ma è un'attività in cui si trovano tanti nomi. Di colori, principalmente, ma anche di materiali. 

Allora io mi appassiono ai loro nomi e li ripeto nella testa mentre A si occupa di metri e misure, argomenti dei quali io mi disinteresso totalmente. 

L'altro giorno la madre di A mi ha insegnato i nomi delle piante del giardino e mi è sembrato che avessero delle forme nuove e dei colori più belli. Mi sono sentita più vicina a loro. Ho annunciato ad A che avrei preparato una tisana con le erbe nuove, lui mi ha chiesto se prima potevo fargliele vedere, credo per evitare di avvelenarci. Io in realtà sono stata contenta perché, nonostante adesso le piante possiedano dei nomi, non sono ancora sicurissima di averli imparati ad associare tutti correttamente. 

Mi sono molto appassionata al gioco dei nomi e ne cerco spesso di nuovi. Forse ne sono diventata di nuovo ossessionata. 

Ieri un uccello si è posato sulla terrazza facendo "uh-uhuh-uh-uhuh", e il suono uh- uhuh io lo associo da sempre agli assolati pomeriggi nella casa al mare; sono stata contenta di vedere l'uccello fare uh - uhuh, riportandomi al pensiero della casa al mare, e ho chiesto ad A se sapesse il suo nome. A, perplesso, mi ha risposto: "Ma è un piccione." 

Allora mi sono detta che i piccioni sono gli uccelli che fanno il rumore della casa al mare e mi sono stati più simpatici. 


Photo by Amador Loureiro on Unsplash


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