Il panico e i soldi



Sempre al bar in cui vado a scrivere, nuove madri parlano di nuovi argomenti. Oggi parlano di soldi e di mutui. Prima in realtà hanno parlato di rughe e di acido ialuronico, ma quello non mi interessava molto.

Ora hanno iniziato a parlare di soldi, ovvero della mancanza di soldi. 

Che devono chiedere soldi ai genitori, ma si dispiacciono perché i genitori sono anziani. Che vanno a comprare le cose biologiche perché sono meglio ma poi spendono tanto. Che se i bambini si ammalano poi con chi li lasciano? Allora la mattina sono assalite dal dubbio: il bambino sta un po’ male, meglio mandarlo a scuola o lasciarlo a casa? Perché certo, se resta a casa poi devono  chiamare la baby-sitter, però se lo mandano a scuola poi magari peggiora e invece che un giorno sta a casa per dieci giorni. E si dispiacciono a pensare queste cose perché alla fine il bambino sta male e loro pensano a questo.

Ma sono tutti soldi che partono. Soldi che escono. Soldi che non ci sono.

Allora io mi angoscio, perché loro hanno vent’anni più di me. Lo so perché quando parlavano delle 
rughe hanno anche detto la loro età. 

Quindi penso che devo diventare ricchissima, mentre bevo una tisana biologica e scrivo un blog. Mi rendo conto che non sono le migliori premesse.

Quando ero piccola, giocavo sempre a un gioco che io e mia sorella chiamavamo “le coperte”. Fondamentalmente consisteva nel prendere due enormi scatole piene di coperte, ovvero vecchie lenzuola, vestiti dismessi e improbabili, zanzariere (che noi per molto tempo abbiamo pensato fossero veli da sposa) e poi usarle per costruire la propria casa e i propri vestiti. Si sceglieva un pezzo della nostra stanza (a volte allargandoci fino al salotto e sfidando le urla di mio padre se facevamo troppo rumore e non lo facevamo lavorare) e si creava la propria casa. Una mia amica aveva brevettato un sistema per creare una persiana che si sollevava da una finestra,  usando una coperta e una corda e legandole in cima al letto a castello. Potevamo usare, oltre alle coperte, qualunque altra cosa, scegliere quante bambole volevamo per farne le nostre figlie.

Io sceglievo sempre tantissime bambole, delle case piccolissime e dei vestiti da povera. La mia storia era sempre la stessa: ero povera, avevo una casa minuscola, tanti figli (meglio se femmine) e niente per sfamarle. Ma ero molto felice. Perché il fatto di essere povera e senza niente mi faceva sentire una persona migliore. O, meglio, una persona uscita da uno dei libri che leggevo. E questo, per me, era come sentirmi una persona migliore. Essere una persona uscita da un libro era la mia massima aspirazione da piccola. Da piccola i miei momenti preferiti erano quelli in cui mi fermavo, contemplavo quello che mi circondava e dichiaravo a me stessa: “Ecco, questo è un momento che potrebbe succedere in un libro”.  

E nella maggior parte dei libri che leggevo, le protagoniste erano povere. Magari non poverissime, ma non navigavano certo nell’oro. All’inizio di Piccole Donne, Jo March dice: “Un Natale senza regali non è un vero Natale”. Per tutto il resto del libro, lei e le sorelle si danno da fare costantemente per aiutare la madre. Heidi vive in una capanna nei monti, con il nonno. Anna dai capelli rossi in una casetta di campagna con i genitori adottivi. Molti di loro, infatti, oltre che poveri erano anche orfani. Huckleberry, la protagonista di Papà Gambalunga, la piccola Dorrit. Harry Potter, naturalmente. C’erano anche orfani che erano andati a vivere con parenti ricchi, come Pollyanna. Però per me valevano sempre come poveri perché comunque erano orfani.

Le loro storie mi sembravano interessantissime. Anche quando si sentivano soli al mondo, anche quando non avevano soldi per comprarsi un nuovo vestito e adattavano quello vecchio che avevano, a me sembrava una cosa molto romantica. Mi sembrava una cosa molto nobile. Mi sembrava una cosa che accadeva solo in un libro.

E quindi io un po’ fantasticavo sul diventare povera, immaginavo il giorno in cui mia madre mi avrebbe detto: "Non possiamo più comprarti nessun vestito e nessun giocattolo nuovo, siamo poveri." Invece mia madre al massimo mi diceva: “Questo giocattolo non te lo compro perché non è il tuo compleanno e poi è troppo.” E allora io continuavo a chiedere regali per Natale e per il compleanno perché, se tanto non ero povera, allora tanto valeva avere nuovi giocattoli.

Poi, ad un certo punto, quando sono diventata grande, sono iniziate quelle cose tremende chiamate “angosciarsi per i soldi”e “cercare di guadagnare dei soldi”. E controllare quando si spendevano. E desiderare un sacco di cose e dirsi: “Forse posso evitare”. In realtà, sotto molti punti di vista sono giunta ad una conclusione per non comprare molte cose ed è scritta qui.   

Però, molte altre volte, non è così semplice. Perché le cose che vorrei a volte sono belle e sostenibili e quindi care. E perché a volte le persone ovvero gli amici ti invitano nei posti e tu che fai? Devo dire che questa cosa, crescendo, è quasi scomparsa, perché tutti i miei amici sono angosciati dai soldi, tutti non ne hanno abbastanza, e quindi ci si trova sempre d’accordo sullo spendere il meno possibile.

Però, quando decidiamo di fare la cosa che costa il meno possibile, non mi sento più tanto come in un libro. Non lo so come mi sento. 

Forse mi sento come quelle madri lì al bar. O forse ho paura di crescere e diventare come quelle madri al bar. Però forse loro non stanno tanto male. Magari loro si sentono come in un libro.

O magari la mia ambizione da grande, quando avrò la loro età, potrebbe essere, invece che guadagnare tantissimi soldi e diventare ricchissima, quella di ritornare a quando ero piccola, ed essere felice per sentirmi in un libro.

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