Il panico e la malinconia

 


Ho già scritto un pandipanico sul pianto ma è un argomento che non penso sia facilmente esauribile in così poco spazio. Non penso sia un argomento che sia mai davvero esauribile.

Ho iniziato a scrivere queste righe mentre piangevo. Ora non piango più. Probabilmente perché non so neanche davvero il motivo per il quale stessi piangendo.

Il punto è che, a volte, mi ritrovo a piangere, e quando ho iniziato è difficile smettere. Secondo me, la maggior parte delle volte, più che piangere per un determinato motivo, piango perché ho iniziato, e quindi smettere è complicato.

Più che complicato, è un po’ faticoso, perché ci deve essere una risoluzione, una sorta di scatto interiore e poi esteriore per smettere. Forse sono pigra e a me a volte non va di farlo questo scatto, preferisco piangere.

Certo, se inizio, devo aver iniziato per qualche motivo. Ma anche di questo non sono così sicura. A volte i motivi sono molto chiari, certo. Molte altre volte, però, non lo sono affatto. Ne percepisco qualcuno, questo sì, ma allo stesso tempo percepisco che c’è qualcosa nell’aria che quel giorno, in quel momento particolare, in quel punto preciso, fa sì che quel determinato motivo porti a piangere. È un incastro di cose. Forse è un incastro che si chiama malinconia.

Quando penso alla parola malinconia vedo me da piccola, sugli otto- nove anni, davanti alla porta finestra della camera mia e di mia sorella, di sera, mentre guardo il cielo che diventa buio. La babysitter e mia sorella giocano a qualcosa e io resto piantata lì. Sento la serratura della porta che si apre, mia madre che torna a casa dal lavoro. Viene ad abbracciarmi e mi trova immobile davanti alla finestra, mentre piango e non so spiegare il motivo. Forse è la luce, forse è la sera, è la luce della sera. È questa sensazione di vuoto se sto ferma e guardo la luce della sera e tutte le finestre dei palazzi vicini, oltre il balcone, che diventano giallo acceso.

Allora potrei smettere di stare ferma, alzarmi e andare a giocare o a leggere, così da non pensare più a questo buco, alla luce, alla sera. Però, allo stesso tempo, qualcosa mi tiene ferma lì. Forse, appunto, sono le lacrime. Ho iniziato a piangere ed è difficile smettere, asciugarle, far finta di niente.

Non so se questo ricordo sia il ricordo di un giorno preciso o di un insieme di giorni, se io abbia aggiunto dei dettagli o se magari ne abbia dimenticati altri. Però la sensazione mi sembra abbastanza precisa. Quella sensazione di malinconia e il pianto che arriva. E il pianto sembra aumentare sempre di più la malinconia. Allo stesso tempo, però, dà anche sollievo, perché la fa diventare una cosa concreta, un’azione che esiste e che posso smettere di fare.

Posso piangere e piangere e piangere e a poco a poco dimenticarne il motivo. Far diventare il pianto qualcosa che si nutre di sé stesso. Solo che poi, appunto, l’inconveniente è che bisogna smettere.

Vedo tanti lavandini in fila, in bagni diversi, dove io mi lavo il viso. “Vai a sciacquarti la faccia” dice una maestra, un amico, una babysitter, un genitore, un genitore di qualcun altro. A volte mi accompagnano, altre volte no. Sento l’acqua che brucia la faccia e un po’ mi dispiace cancellare i segni del mio pianto, ma in realtà non si cancellano mai del tutto, soprattutto se ho pianto per parecchio tempo. La faccia resta rossa e in alcuni casi vorrei che non si vedesse, mi vergogno. Un amico, una maestra, una babysitter e tutti gli altri mi dicono: “Non ti preoccupare, non se ne è accorto nessuno, non si nota che hai pianto” ma io lo so che non è affatto vero. La mia faccia lo dice.

Però non è così male, perché tengo attaccato il ricordo del pianto per un po’ e, se farlo andare via è faticoso, il momento subito dopo non lo è, è calmo e tranquillo, mi sento come svuotata mentre galleggio.

Mentre scrivevo, mi sono girata e ho guardato fuori dalla finestra la solita montagna. Cadono piccoli fiocchi di neve e il cielo è grigio, o forse bianco. O forse, in realtà, non riesco a vedere il cielo da qui, ma solo un’enorme nuvola che copre la cima della montagna. Mi sono detta: “Questo è un paesaggio da malinconia”. Solo che poi la malinconia non è arrivata. L’ho aspettata qualche altro secondo, poi mi sono stufata.

Ho l’impressione che la malinconia arrivasse di più quando ero piccola. Erano dei veri e propri pozzi perenni di malinconia che arrivavano di soppiatto.

Adesso arrivano, ma più raramente. Allora, quando arrivano, un po’ sono contenta. Un po’ no, ovviamente, perché sono triste per la malinconia. 

Forse sono contenta solo quando ci ripenso e mi sembra una cosa carina, la malinconia. Mentre sono dentro al buco profondo non penso poi troppo. Sono impegnata a piangere. 

Poi a smettere di piangere. 

Poi ad ascoltare la leggerezza che rimane. 

E a quel punto penso che è anche carina la malinconia. 

 

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