Il panico e il sentirsi inadatta


Io sono spesso arrabbiata con il mio panico. È una cosa che mi dispiace molto. È una cosa molto difficile da evitare.

Sto scrivendo questo articolo con la mia penna stilografica con la quale scrivo in genere tutte le altre cose: il mio diario, le storie che scrivo. Non il blog.

Non so perché. Mi piace molto scrivere a penna, soprattutto con la penna stilografica. Mi piace guardare l’inchiostro che scorre, tanti ghirigori di parole. Mi piace quando l’inchiostro finisce e devo fermarmi, svitare la penna e riempire di inchiostro la cartuccia, girando lo stantuffo. Mi piace avere inchiostri di colori diversi.

Mi aveva consigliato di usare la penna stilografica una mia professoressa in prima media, con la speranza che diventassi più ordinata. “E poi, se a te piace scrivere, vedrai che è molto più bello”. Quella è stata la prima di una lunga serie di penne che ho rotto, usato, perso. Che ho tenuto in mano.

Sono qui seduta al tavolo a scrivere con la mia penna e sono arrabbiata con il mio panico. Ho alzato gli occhi e fuori dalla finestra ho visto la montagna dietro casa coperta di nebbia. Si scorge solo un po’ la cima. E io sono arrabbiata con il mio panico.

Sono arrabbiata perché non lo capisco. Non capisco il suo potersi infilare nelle giornate e trasformarle, farle diventare altro. Non capisco il suo attaccarsi alle cose. Non capisco perché distrugge le cose. Ma è lui che le distrugge oppure sono io? Oppure è la stessa cosa?

Mi sembra che il mio panico sia inadatto. Inadatto a stare nelle cose. A vivere gli imprevisti. A vivere le giornate. A vivere la complessità. Allora poi sono io a sentirmi inadatta. Una massa inadatta dentro a un golf colorato.

Ora sto continuando a scrivere e sono in macchina. C’è sempre la nebbia intorno, che in realtà sono nuvole basse. A sta guidando. A è venuto ad abbracciarmi mentre ero seduta al mio tavolo con la montagna.

Perché prima aveva urlato. Avevo urlato anche io. Per questo sono arrabbiata con il mio panico. Perché prima mi sono trovata ad urlare. Mi sono trovata a piangere. Mi sono trovata circondata dal nero. E non so se “trovata” sia la parola giusta. Non so mai quali sono le parole giuste quando si parla del panico.

E mentre urlavo pensavo: non posso essere così. Non posso essere così inadatta. Anche gli altri stanno male per il mio essere inadatta. Mi dispiace che A si arrabbi con il mio panico. Mi fa rabbia che lui si arrabbi con il mio panico. Non riesco a capirlo. Ma capisco che è difficile a volte parlare con il mio panico. Il mio panico non è bravo a parlare.

Quest’ultimo pezzo l’ho scritto in piedi, con il quaderno contro il muro per ripararmi dalla pioggia, fuori dalla farmacia, l’unico luogo in cu andiamo A e io qui in montagna. La farmacista scherzava, io cercavo di non deconcentrarmi. A rispondeva restando sulla porta.

Abbiamo incontrato uno dei trasportatori che arriva spesso con i pacchi e che è il più simpatico di tutti e ha salutato A per nome.

Abbiamo visto un signore anziano con in testa un cappello appollaiato su dei gradini per fare una foto alle nuvole che avvolgono la montagna.

Io ho continuato a scrivere in macchina.

Non so come mi sento ora. Non sono, in genere, brava a capirlo. Non vedo l’ora di tornare nella mia stanza con la montagna.

Quando alle medie ho iniziato a usare la penna stilografica, urlavo spesso. Le due cose non sono correlate, le urla e la penna. Ma accadevano nello stesso momento. Urlavo spesso. Mi sentivo inadatta.

Come adesso, più di adesso, in modo diverso da adesso. Questo non lo so. Potrei certo continuare a pensare a cosa voglia poi dire questa parola, inadatta. Forse la sopravvaluto un po’? Forse ci casco dentro?

Allora guardo la montagna, che in realtà sono varie montagne, non una sola, ma io faccio fatica a distinguerle una dall’altra. Oggi poi sono anche ricoperte dalle nuvole.

La macchina riparte, io stringo la penna, guardo fuori dal finestrino e non posso più scrivere perché mi è venuta la nausea. La nausea è facile da riconoscere.

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