Il panico e gli inglesi
Qualche settimana fa avevo parlato dell’esercizio carino che mi aveva suggerito di fare una professoressa carina a Londra quando mi era venuto il panico in classe: unire due dita della stessa mano e unire al movimento delle dita il respiro.
Avevo anche detto che la professoressa era americana e non
inglese. Questo è un dettaglio fondamentale.
Oggi questa cosa mi è rivenuta in mente. Non so bene perché.
Non c’è molta possibilità di frequentare persone inglesi in un paesino di montagna
di dieci abitanti in Abruzzo a dicembre, per non dire nessuna. Passo però i
miei pomeriggi a parlare in inglese ai bambini dal computer. I bambini dietro
allo schermo cambiano ora dopo ora, io resto sempre ferma. Al massimo mi alzo
per prendere una tisana, oppure faccio ad A dei segnali con le dita fuori dalla
visuale della telecamera del computer che vogliono dire: “Per favore mi
potresti portare una tisana o un’altra cosa calda?”
A furia di rivolgermi ai bambini in inglese e di avere una
tazza calda tra le mani, a volte mi convinco per qualche istante di essere
inglese anche io. Creo una mia nuova identità.
Allora ho pensato al mio panico a Londra. Il mio panico a
Londra ha assunto varie forme, se mi concentro le posso quasi vedere, come se i
vari tipi di panico si fossero attaccati ad alcune caratteristiche del
paesaggio.
Una cosa associata al mio panico a Londra è la reazione degli
inglesi al mio panico a Londra. Con panico, in realtà, non intendo solo il
panico, ma anche ogni possibile espressione di un qualsiasi sentimento.
Ho capito subito che il mio panico non si sarebbe integrato
molto bene. Dieci giorni dopo essere arrivata, e tre giorni dopo essermi trasferita
nella nuova casa, stavo facendo le valigie per tornare a Roma nel fine
settimana (per riprendere il pc, in assistenza dopo che ci avevo rovesciato sopra
dell’acqua, ma in realtà perché avevo il panico della lontananza, panico che
andrà trattato a parte vista la sua mole). Solo che non trovavo il passaporto. Avevo
cercato dappertutto. Non lo trovavo. Sono entrata nel panico. Mi sono disperata.
Poi ancora disperata. Poi mi sono ricordata che lo avevo già messo in valigia
giorni prima per paura di dimenticarlo.
Quando sono tornata da Roma, due giorni dopo, Geat, mia compagna
di corso e mia coinquilina, mi ha raccontato i retroscena del mio panico per il
passaporto. Uno degli altri coinquilini (inglese) aveva sentito che mi disperavo,
e non sapendo che fare era andato a bussare alla porta dell’altro coinquilino
inglese del piano di sopra per dirglielo. Entrambi si erano interrogati su cosa
fare e avevano decretato che l’unica cosa da fare fosse non fare nulla.
Poi l’avevano raccontato a Geat e lei era rimasta incredula.
“Ma non potevate bussare alla sua porta? Le avrebbe fatto piacere!” Non riusciva
a crederci. Spesso io e Geat, che è israeliana, non riuscivamo a capacitarci di
una serie di comportamenti inglesi. Del loro non muovere mai le mani mentre
parlavano, per esempio. Allora, quando parlavamo insieme, a volte esageravamo
il nostro gesticolare, come per compensare.
Un altro giorno, un altro panico. Questa volta all’università.
Non per il passaporto, ma per qualche motivo che non ricordo. Entro nel panico
durante una lezione di scrittura per la radio. È la seconda volta che entro nel
panico durante il corso di scrittura per la radio. Non credo sia minimamente
legato alla scrittura per la radio, che trovo molto carina. Credo sia solo una
coincidenza. O il fatto che forse il corso capita in un orario consono per il
panico. Non ricordo quale sia l’orario, quindi non lo so.
La professoressa mi vede entrare nel panico. Non è difficile,
dato che siamo solo venti studenti. Non dice nulla. Dà la pausa. Mi si avvicina
durante la pausa. Non dice nulla. Poi si rialza. Il giorno dopo il coordinatore
del corso mi scrive una mail, mi chiede se posso andare al suo ricevimento.
Quando arrivo mi dice che la professoressa di scrittura per la radio gli ha
mandato una mail per dirgli che avevo avuto il panico in classe (che lui non
chiama panico, ma chiama “non sentirsi bene”) e allora lui mi ha mandato una
mail per farmi andare a parlare con lui.
Io l’ho ascoltato e ho pensato che io avevo di certo dei
problemi con gli abbracci (come dico qui) ma che loro parevano averne molti di più. Ho
ripensato alla professoressa di radio che non mi dice nulla e che poi scrive
una mail. Non capisco come abbia fatto a non dirmi nulla. Nulla.
Qualche settimana dopo, l’altra coordinatrice del corso, informata
anche lei dell’accaduto, mi dirà, sorridendo: “Se guardi bene, a volte sulla
metro puoi scorgere qualche inglese che non ce la fa più a trattenere tutto
dentro e scoppia a piangere disperato.” Anche lei era inglese, ma aveva un
cognome che sembrava straniero. Forse l’ha salvata il cognome.
Io e Geat parlavamo spesso degli inglesi e dei loro
sentimenti. Ci stavano simpatici, ma a volte non riuscivamo a capirli. Non
riuscivamo a capire come li gestissero, i sentimenti. Non riuscivamo a capire
il loro esser convinti che il tempo a Londra fosse bello. (Un giorno, all’università,
durante un esercizio in cui bisognava alzarsi quando si era d’accordo con un’affermazione
e rimanere seduti in caso contrario, Geat aveva detto, certa di sollevare tutti
dalle sedie: “The weather in London is terrible”. Ci eravamo alzate solo noi
due.)
A volte mi manca il panico di Londra perché era un panico
tutto mio. E un panico tutto mio di Londra. Ed era mio perché loro non lo
capivano. Anche quando ne parlavo a qualcuno, era come se tra noi restasse
sempre una barriera. Forse era la lingua.
Mi offrivano del tè. Mi offrivano un dolcetto. Mi dicevano
se volevamo “schedule” un momento per fare qualcosa insieme. Mi facevano sedere
sul tappeto dopo aver tolto le scarpe sulla porta.
Ma la cosa strana era che il mio panico lo apprezzava. Perché
rimaneva mio, e non si doveva neanche scoprire troppo. Perché si ritrovava a
contenersi. Si ritrovava a darsi altri nomi e a guardarsi attraverso altri
occhi.
Trovava una sua dimensione dentro alle tazze di tè con un
goccio di latte.
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