Il panico e gli abbracci


Quando andavo al liceo io non abbracciavo nessuno. Al mio panico faceva paura abbracciare. Non so bene cosa gli facesse paura degli abbracci in realtà.

Forse la mancanza di spazio tra me e un’altra persona.

Forse il perdere i propri confini.

Forse il fatto che non sapesse mai quanto dovesse durare un abbraccio, e quindi aveva paura di farlo durare troppo o di farlo durare troppo poco.

Forse dove mettere la testa mentre si abbraccia. 

Forse capire qual era il momento per abbracciare.

In effetti il mio panico aveva motivi a sufficienza per non amare gli abbracci.

Abbracciavo le persone solo se erano loro ad abbracciare me. Quindi, in realtà, non le abbracciavo davvero. Mi limitavo ad accettare il loro abbraccio. Mi facevo abbracciare quando non c’erano proprio alternative. In genere, quando stavo male. Quando piangevo. Quando mi veniva solo da urlare. Quando il mio panico aveva preso il controllo su di me e io non riuscivo più a parlarci e a dirgli che forse poteva fermarsi un po’.

Più che abbracciare me, gli altri abbracciavano il mio panico, che in quel momento era l’unica cosa davvero evidente. Anche se avevo un vestito carino. Il panico se ne frega dei vestiti carini. Il panico se ne frega del trucco. Se si prevede di avere il panico è meglio non truccarsi. È difficile prevedere il panico. È più facile non truccarsi mai.

Dopo il liceo, ho scoperto che le persone abbracciano anche senza grossi motivi. Forse è che crescendo si ha meno paura degli abbracci, perché si hanno più chiari i propri confini.

Il mio panico però ne aveva sempre paura. Se ne teneva alla larga.

Finché un giorno io e il mio panico abbiamo conosciuto una ragazza a cui piaceva abbracciare. Io e lei siamo diventate amiche.

Un giorno lei mi ha abbracciato. Ma io non ero nel panico. Lei non era triste. Io non ero triste. Nessuno era in difficoltà. Semplicemente, mi stava salutando per andare via.

Lei mi ha abbracciato e io ho fatto come sempre: mi sono lasciata abbracciare. Solo che lei mi ha detto quello che gli altri non mi dicevano mai: “Perché tu non abbracci?”. Ho notato che le mie braccia erano ai lati del mio corpo, ferme, immobili, dritte. Allora, piano piano, ho provato a muoverle e ad abbracciare davvero.

È stato tremendo.

Ed è capitato ancora, perché ho continuato a vedere la mia amica. E lei mi abbracciava sempre. Lei abbracciava sempre tutti, ma a me diceva che mi abbracciava perché  “così impari a farlo”. Io non capivo bene come si potesse imparare. Però continuavo.

E poi si sono moltiplicate le persone che volevano abbracciare. Così, all'improvviso, tutti volevano abbracciare.

Io provavo a rispondere a questi abbracci. Ad un certo punto ho smesso di provare a migliorare. Mi sono concentrata solo sul farli durare poco.

Ad un certo punto ho anche smesso di farli durare poco.

Ho iniziato a pensare solo a dove mettere la testa.

Poi ho anche smesso di pensare a dove mettere la testa.

Ma non ho smesso di chiedermi: qual è il momento giusto per abbracciare?

Ad un certo punto, qualche mese fa, tutti abbiamo smesso di abbracciare. Devo ammettere che all'inizio il mio panico è stato contento. Non doveva più pensare: qual è il momento per abbracciare? Semplicemente, quel momento non c’era. Non era una decisione da prendere ma una regola da seguire. Il mio panico è bravo a seguire le regole.  

Dopo un po’ si è accorto, però, con estremo stupore e anche con una punta di fastidio, che quando salutava le persone, poi, gli mancava qualcosa. Andava via e aveva i suoi confini ancora tutti intatti. Al panico piace avere i confini intatti. Gli dà molta sicurezza.

Però gli piace anche perderli per un po’, per poi ritrovare i suoi.

Al panico manca perdere i suoi confini. 

Potrebbe semplicemente dire che gli manca abbracciare, che sarebbe quello che vuole dire.  

Ma il panico non è bravo a dire le cose che vuole dire. 

 

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