Filmini e alieni

 


Poco dopo essermi appassionata di film, come racconto qui, ho deciso che volevo girare dei film anche io.

Per il mio compleanno di quattordici o quindici anni mi sono fatta regalare una telecamera e da quel momento ho iniziato a riprendere tutto.

Prima di riprendere tutto, in realtà, mi sono angosciata. Lo faccio sempre. Appena inizio una nuova attività, io mi angoscio. E mi deprimo. Io sono brava con le abitudini, non con le novità.

Credo di aver passato ore e ore nella mia stanza in compagnia della mia telecamera, in cerca dell’ispirazione o anche solo di qualcosa da riprendere. In una delle gite in libreria con i miei genitori e mia sorella avevo comprato un libro di regia e lo studiavo sdraiata sul pavimento. Provavo a rifare le inquadrature che proponeva, ma non trovavo niente di interessante da filmare in casa.

Anche se era un regalo per il mio compleanno, mi era arrivato mesi dopo, quando erano iniziate le vacanze estive, con le loro lunghe ore in ombra dentro casa, in quel vuoto terribile dell’estate. Camminavo con la telecamera al collo, annoiata dal nulla intorno a me, che non mi offriva niente da riprendere, e arrabbiata con me stessa per non avere il coraggio di uscire fuori nel sole a riprendere qualcosa di più entusiasmante.

Poi, come ogni anno, eravamo andati al mare. Avevo portato la telecamera e avevo iniziato a riprendere senza sosta. Nella casa al mare, per lo meno, eravamo in tanti, tra zii, zie, nonno, cugine. A ogni pranzo e a ogni cena, io mi presentavo con la mia telecamera (alla quale, nel frattempo, avevo dato un nome, che non ricordo. Credo che fosse una sigla impronunciabile, creata con le iniziali di nomi che mi piacevano. Mia madre mi aveva proposto Lulù, per i fratelli Lumière, ma a me sembrava il nome di una ragazzina scema).

Dopo un po’, i miei parenti avevano iniziato a dare cenni di cedimento. D’altra parte, come dar loro torto: passavano interi pasti con me che li spiavo e li registravo. Se c’era un momento di tensione, poi, o un momento di pettegolezzo su qualche conoscenza comune, io riprendevo con ancora più interesse, mentre loro, magari, mi chiedevano di lasciar perdere.

Non so cosa avessi in testa di raggiungere, devo dire. Per il momento, mi bastava registrare e basta, forse pensando che poi, montando insieme tutto quel materiale, avrei trovato cose interessantissime. O forse, chissà, era solo un modo per provare inquadrature e per fare pratica. Più probabilmente, era un modo per mettere uno schermo tra me e il mondo intorno, e trovare un mio personale modo di osservarlo.

Dietro alla telecamera, io mi sentivo protetta. Stavo facendo una cosa precisa che era solo mia, e questo mi piaceva. Mi piaceva andare in giro con uno scopo perché mi trovavo in un periodo in cui, invece, non mi sembrava di averne uno. Con la telecamera, tutte le cose intorno a me si trasformavano, diventavano materiale da riprendere e conservare.

Poi, per progredire, avevo scritto la sceneggiatura di un corto.

In realtà, di sceneggiature ne avevo scritte più di una, tutte abbandonate. Facevo la stessa cosa con le storie che scrivevo: le iniziavo piena di entusiasmo e le interrompevo appena si rivelavano più complicate del previsto.

Uno di questi corti, però, ero riuscita a finirlo. Lo avevo ricopiato su dei fogli seguendo le indicazioni di un libro di sceneggiatura e poi ero passata all’azione, mettendomi a cercare le persone per girarlo. Allo stabilimento, avevo subito presentato il mio progetto a due mie amiche, che erano parse abbastanza interessate. A me non interessava stare al mare, dove c’era troppo sole e dove la sabbia si appiccicava alla mia pelle ricoperta di crema. Mi vergognavo a parlare con gli amici di quelle mie due amiche, tutti quei miei coetanei che parevano a loro agio mentre chiacchieravano al bar o giocavano a beach volley.

In quelle cose non ci riuscivo a stare, ma nel mio film, invece, sì.

Era la storia di un alieno che era stato mandato nel nostro mondo perché era diverso dagli altri del suo pianeta. Era, invece, uguale a noi.

Le mie amiche si erano presentate a casa mia con un’altra ragazza, che avrebbe interpretato l’alieno, e avevamo passato il pomeriggio a girare delle scene nel giardino di casa. Era stata reclutata anche mia sorella, nell’ovvio ruolo di sorella più piccola della protagonista.

Non avevamo finito il corto, né ci eravamo andate vicine.

Ma a volte ripenso alla mia testardaggine di quel momento, al mio sforzo per riuscire a fare qualcosa di difficile che partiva solo da me, e mi sembra una cosa enorme.

Le decine e decine di cassette che ho riempito sono da anni a casa di una mia amica, con la quale volevamo usarle per un progetto. Anche lei aveva tantissime cassette riempite negli anni. A volte penso che vorrei rivederle tutte, altre volte ho un po’ paura di quello che potrei trovarci.

 

Foto di Nantu DAS su Unsplash

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