La scoperta dei film (soprattutto quelli vecchi)
A volte, la mattina,
quando vado a correre, all’altezza di un grande incrocio in cui passo per
tornare a casa ci sono i vigili che dirigono il traffico. Mentre sono ferma ad
aspettare che il semaforo diventi verde, li guardo e penso a due cose.
La prima è se la
loro presenza aiuti o meno il traffico. Mi sforzo proprio di trovare dei segnali
inequivocabili della loro utilità, cerco di capire in che modo i loro movimenti
dovrebbero rendere quell’incrocio terribile un incrocio migliore. Forse sembra
che io parli con antipatia verso di loro, ma in realtà a me farebbe tanto piacere
scoprire che sono utili; mi dispiace un po’ pensare che stanno lì in piedi a
muovere le braccia e non servono a nulla.
La seconda cosa a
cui penso è la voce di Marilyn Monroe quando, in A qualcuno piace caldo,
dice: “Siamo una famiglia di musicisti, mio padre dirigeva […] Il traffico.” Mi
è venuta in mente una mattina di un po’ di mesi fa e non se ne va più dalla
testa, rivedo Marilyn Monroe che ripete questa battuta nel piccolo bagno del
treno occupato dall’orchestra femminile a cui si sono aggiunti un sassofonista
e un contrabbassista travestiti da donne per sfuggire a dei gangster.
Non so quando ho visto
questo film per la prima volta, ho un vago ricordo del salotto della casa al
mare. Devo aver avuto sui quattordici anni, e credo me lo avesse consigliato
mio padre, forse l’ho visto con lui.
Deve essere stato
uno dei primi film che ho visto quando, in quarto ginnasio, la mia passione per
serie tv adolescenziali e film per famiglie si è trasformata in un amore per
vecchi film. Anni ‘30, ‘40, ‘50, ‘60, americani, italiani, francesi, giapponesi,
svedesi: vedevo tutto quello che trovavo. In un mondo in cui non c’erano
piattaforme come Netflix, il mio più grande tesoro era la rivista di Sky che arrivava
a casa ogni mese. La consultavo metodicamente, analizzando la programmazione di
ogni canale di cinema, giorno per giorno, sottolineando quelli che mi
interessavano.
I film che volevo vedere
io, ovvero i film che le enciclopedie di cinema mi consigliavano di vedere,
erano trasmessi a orari improbabili, mentre ero a scuola o a notte fonda. Per
riuscire a vederli ero riuscita a imparare come programmare il videoregistratore,
che partiva nel cuore della notte, svegliandomi con il suo rumore. Ma a me non
dava fastidio, anzi, mi faceva piacere, come dico qui.
Compravo cassette su
cassette vuote in un negozio sotto casa e rovistavo tra le videocassette dei
miei genitori alla ricerca di film da vedere. E quando qualche adulto, riferendosi
a film di un paio di decenni prima, mi diceva: “è un vecchio film, ti potrebbe
non piacere”, rispondevo sdegnata che per me i vecchi film erano quelli degli
anni Trenta, e a me piacevano tantissimo. La mia attrice preferita era Katharine
Hepburn, che era morta un giorno d’estate di quando facevo le medie, come aveva
ricordato la radio di mia madre a colazione.
Il mio attore
preferito era Paul Newman, che invece è morto all’inizio del mio ultimo anno di
liceo. Associo la notizia della sua morte al laghetto di villa Ada, forse perché
quel giorno ci ero andata con dei miei amici e ricordo che continuavo a pensarci
e a sentirmi triste.
Questa era un po’ l’unica
fregatura dei vecchi film, che tutti quelli che li avevano fatti morivano (se
non erano già morti) e a nessuna delle persone intorno a me sembrava
interessare particolarmente. Per il resto, scoprire i vecchi film era stato
come aprire un mondo parallelo di immagini vecchie e strane che, però, mi
apparivano vicinissime.
Andavo avanti a
tentativi, sperando di riuscire a trovare i film di cui parlavano le
enciclopedie nel catalogo di Sky o da Blockbuster, dove, però, non avevano film
molto vecchi. In compenso, un giorno avevo affittato Lost in Translation
e il commesso mi aveva detto che a me non sarebbe piaciuto, ero troppo piccola.
Quando ero tornata a riconsegnarlo non avevo avuto il coraggio di dirgli che mi
era piaciuto molto e che i miei film preferiti, comunque, erano le commedie americane
degli anni Trenta e Quaranta.
Mi piacevano anche le
commedie italiane, i film francesi della Nouvelle Vague, i film americani degli
anni Sessanta, il cinema indipendente degli anni ’70.
La lista sarebbe lunghissima.
La cosa bella era
che i film che registravo potevo vederli da sola quando volevo, mentre andare
al cinema era un’operazione che mi costava una considerevole dose di ansia (e
che, per questo motivo, ha bisogno di un capitolo a parte).
Quando poi, all’università,
ho fatto degli esami di cinema, la lista dei film si è ampliata, arrivando a comprendere
film più vecchi di quelli vecchi, film muti. Dopo la diffidenza iniziale, mi
erano piaciuti anche quelli. Ne ricordo uno svedese, bello e tristissimo, tutto
girato in mezzo alla neve. Lo avevo visto nelle postazioni video della biblioteca
e avevo pianto da sola.
Poi all’esame avevo
scoperto che molte persone avevano studiato solo i libri che parlavano dei
film, senza vedere i film, perché erano troppo lunghi.
Foto di The New York Public Library su Unsplash
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