Immedesimarsi per forza
Qualche mese fa ho parlato degli incastri perfetti e terribili che ho perfezionato negli anni per riuscire a non sprecare neanche un istante e
di come, nel tempo, questa pratica si sia rivelata alquanto fallimentare.
Durante il liceo facevo sempre diverse cose contemporaneamente. Appena mi ritrovavo in un momento
un po’ noioso, imponevo alla mia mente di riempirlo con qualcos’altro. La maggior
parte delle volte quel qualcos’altro era lo studio per il mio corso di teatro.
Da quando lo avevo iniziato, infatti, ne ero stata risucchiata.
Dopo il corso pomeridiano della scuola media, alla fine del
quarto ginnasio ero passata a una scuola di recitazione vera a propria, frequentata
da persone più grandi di me, che avevano venti
o, addirittura, trent’anni. Ai miei occhi, vecchissimi.
Due volte a settimana percorrevo il breve tragitto dal mio
liceo alla scuola di recitazione sbocconcellando un panino. Una volta arrivata,
scendevo le scalette che portavano alla sala prove e per l’intero pomeriggio restavo
immersa in quella stanzetta umida e un po’ buia. Per ore e ore guardavo le
scene succedersi sul palco. A furia di osservarle, le avevo imparate quasi
tutte a memoria, e riuscivo a capire se qualcuno recitasse meglio o peggio del
solito. Poi, quando era il mio turno, salivo sul palco anche io.
I pomeriggi trascorsi al corso di teatro erano forse gli unici
momenti in cui io non cercassi di fare altro, di incastrare altre cose. Mi lasciavo
inglobare dall’atmosfera di quella saletta e, quando ne riemergevo, la luce per
la strada era cambiata.
E iniziava la mia ossessione.
La mia ossessione per infilare lo studio delle mie scene di
teatro in qualunque momento disponibile. Qualunque.
Per prima cosa, ogni giorno dovevo ritagliarmi almeno un’ora,
ma meglio un’ora e mezza o due, per provare una delle due scene che mi avevano
dato a teatro, o entrambe. Le parti venivano date mesi prima dello spettacolo
finale, ed erano brevi scene tratte da opere diverse. E io, quelle brevi scene,
le ripetevo fino allo sfinimento.
Chiusa nella mia camera, dopo aver avvertito tutte le altre
persone presenti in casa che andavo a recitare e che quindi non mi avrebbero dovuta
interrompere, passavo lunghissimi minuti a concentrarmi, a “calarmi nel
personaggio”. Rileggevo gli appunti che avevo preso il giorno prima, cercavo di
interiorizzarli. Camminavo, mi sedevo, provavo a muovermi come il mio
personaggio. A volte scrivevo un diario fingendo di essere lei. E poi, quando
mi sembrava di essermi concentrata a sufficienza, iniziavo a recitare la scena.
Essendo da sola, dovevo ripetere anche la parte dell’altro
attore, ma tanto, a forza di provare, l’avevo imparata a memoria. Recitavo la
mia battuta e poi mi rispondevo nella testa con quella dell’altro. E quando mi
sembrava di non essere abbastanza concentrata mi fermavo e ricominciavo.
In alcuni, brevi momenti, riuscivo a entrare così bene nella
scena da percepire le cose in un modo diverso. In quegli istanti la mia stanza cambiava,
era come trasfigurata, e io venivo trasportata in un posto nuovo.
Per tutti quei brevi momenti, però, ce ne erano altri lunghi
e difficili. Ogni giorno, qualunque cosa accadesse, dovevo chiudermi dentro la
mia stanza. Se non lo avessi fatto, mi sarei sentita inutile, senza un pezzo.
E quindi, proprio per questo, era necessario usare ogni
attimo disponibile. Lo studio della scena, infatti, non doveva limitarsi a quei
momenti chiusa in camera. In ogni attimo vuoto, io dovevo pensare al mio personaggio,
stabilire una qualche connessione tra me e lei.
A scuola, durante un’ora di buco, potevo ripetere nella
mente le fasi principali di una scena; in cortile, circondata dal caos, potevo
pensare a una battuta particolarmente difficile.
Tutte queste pratiche secondo me sarebbero dovute servire per entrare
meglio nel personaggio, per tenerlo con me. Questa cosa di entrare nel personaggio
mi ossessionava, e cercavo di farla in ogni modo.
I lunghi mesi in cui ho studiato la parte di Giovanna d’Arco ne L’Allodola di Anouilh, ogni volta in cui passavo accanto a qualcuno che chiedeva l’elemosina pensavo che avrei dovuto dargli dei soldi, perché lei lo avrebbe fatto e io dovevo imparare a comportarmi come lei. Quando interpretavo Laura Wingfield de Lo Zoo di Vetro avevo ricostruito nella mia stanza un piccolo zoo di animaletti di vetro, che pulivo e osservavo religiosamente, come se ci tenessi davvero. E, nel frattempo, provavo a zoppicare come lei.
Ero convinta che tutte queste cose mi avrebbero avvicinato
al personaggio, mi avrebbero resa un po’ più simile a chi interpretavo. E, forse, non avevo tutti i torti.
Ma partivo dal presupposto sbagliato. Mi imponevo di farmi trasformare
dal mio personaggio.
Trasformare, però, è qualcosa che avviene senza che noi lo possiamo
imporre. Avviene e basta, o non avviene affatto.
Foto di Allison Archer su Unsplash
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