Alla ricerca di incastri perfetti
Un pomeriggio di tanti anni fa, facevo la terza media, nella
palestra di kung fu ho pensato a una cosa che ricordo ancora adesso.
Ero ferma in piedi, forse in attesa dell’inizio della
lezione, e ho riflettuto su una cosa che si era affacciata nella mia mente già
nello spogliatoio, mentre mi cambiavo le scarpe. “Ho tante cose da fare, oggi”
mi ero detta, e avevo subito sentito una punta di entusiasmo al pensiero.
Pochi istanti dopo, in piedi sul pavimento verde della
palestra (che forse non era davvero verde, ma che è così nel mio ricordo), mi
ero divertita a sviscerare questo pensiero. Era bello avere tante cose da fare,
così tante da doverle fare tutte insieme, anche in contemporanea, come, per
esempio, ripetere le pagine da studiare per il giorno dopo mentre ero alla
lezione di kung fu, così da risparmiare tempo.
Mi ero immaginata nella veste di una ragazzina piena di
impegni interessantissimi.
Questa immagine sopperiva alla carenza di altre
caratteristiche che, secondo me, mi avrebbero potuta rendere una ragazzina
speciale. Al momento, infatti, non avevo niente che potesse essere degno di quell’aggettivo.
Con mio grande rammarico, infatti, non facevo l’agonismo di nessuno sport, come dico qui. A questa opportunità di diventare speciale che mi avrebbe
offerto l’agonismo e che ormai, a tredici anni, era sfumata, si era aggiunta,
da qualche mese, una nuova possibilità: sarei potuta diventare una piccola
attrice prodigio. Anche se non ero più una bambina, ero ancora abbastanza
piccola per potermi aggiudicare quell’appellativo.
Da qualche mese avevo iniziato un corso di teatro a scuola.
Ci andavo sempre molto volentieri, perché l’insegnante era molto simpatico e
facevamo cose divertenti, ma il mio sogno segreto, tutti i martedì, era che accadesse
qualcosa di speciale, ovvero che qualche personalità indefinita del mondo del
cinema decidesse di venire a seguire il corso di una scuola media di Roma, mi
notasse e mi proponesse di fare un film. Capivo da sola che era una possibilità
molto remota, ma era pur sempre una possibilità.
Sognavo continuamente eventi di questo tipo, rimanendo inevitabilmente
delusa.
E allora, quel pomeriggio, a kung fu, ho pensato che essere
immersa in tante attività mi avrebbe un po’ avvicinata al mio sogno di essere
speciale. Mi avrebbe fatto assomigliare a una delle protagoniste dei film tutti
uguali che vedevo, che si davano tanto da fare per raggiungere i loro
obiettivi.
E io potevo farlo iniziando a riempire di impegni le mie
giornate, di tante cose che mi avrebbero tenuta occupata e mi avrebbero fatto
assomigliare a una delle protagoniste di quei film alle quali capitavano sempre
cose entusiasmanti.
È stata una grande fregatura.
Ha funzionato, chiaramente. Per questo è stata una
fregatura. Sono diventata bravissima nell’arte dell’incastro, nel fare tante
cose insieme e nel sentirmi in ansia se, invece, ne facevo una sola.
Al liceo studiavo in autobus e in ogni altro ritaglio di
tempo. Quando c’era un’ora di buco venivo presa dall’ansia di non avere con me
abbastanza libri da studiare o da leggere per riempirla. E se,
disgraziatamente, qualche insegnante ci proponeva di andare in cortile a
giocare a pallavolo, io venivo colta dal panico. Una volta credo di aver
addirittura urlato, stizzita: “Ma io ho da fare!” (va anche detto che a me non
piaceva per niente la pallavolo). Ho letto sul pullman in cui abbiamo trascorso
la maggior parte delle ore del disastroso viaggio in Grecia organizzato dalla
scuola. Ho studiato intere materie nelle sale di aspetto di nutrizioniste e
logopediste.
Si poteva trovare sempre qualcosa da fare insieme a qualche
altra. La mia più grande abilità in questo campo, se di abilità si tratta, è
stato il modo in cui sono riuscita a infilare in ogni momento libero qualcosa
che fosse relativo al mio studio per il corso di teatro, ma questo ha bisogno
di un discorso a parte.
Questa mia abilità è continuata per tutta l’università, consentendomi
di studiare in piedi in una cucina sconosciuta, appoggiata a un congelatore, in
mezzo a chiacchiere e a rumori di ogni tipo. Senza contare, ovviamente, tutti i
tragitti in autobus e in metro, che mi sembravano anche troppo comodi.
Prosegue ancora adesso. Stamattina mi sono quasi beata della
fila in piedi alla posta perché mi permetteva di studiare un po’, senza preoccuparmi
della scomodità di sottolineare il libro mentre ero in piedi e con l’altra mano
tenevo un pacco da spedire. Leggo tre pagine a colazione e due a pranzo; ne
leggo una e mezza mentre aspetto che un bambino esca da scuola e altre quattro
se arrivo troppo presto a una lezione.
Sono momenti scomodi e frettolosi. Sono anche stati, nel
tempo, molto utili, e continuano a esserlo.
Quello che mi sfugge adesso, però, è come potevo pensare che
fare le cose in questo modo terribile mi avrebbe resa speciale.
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