Procrastinare

 


Qualche settimana fa una mia amica mi ha chiesto: “Ma hai scritto un pandipanico sulla procrastinazione?”

E io mi sono accorta di non averne mai parlato.

Allora mi sono chiesta il perché. Perché non avevo mai trattato un argomento come la procrastinazione, che è così angosciante? Sarebbe stato un argomento perfetto.

Il motivo per cui non ne avevo parlato è che per molto tempo non ho capito qual era il mio rapporto con la procrastinazione, avevo solo delle nozioni sparse e confuse.

Un’altra mia amica, anni fa, mi ha raccontato quello che le accadeva prima di una nuova scadenza all’università. Stavamo camminando per una stradina di Londra, era domenica, c’erano bancarelle da tutte le parti e, soprattutto, c’era molto sole. Forse è per questo che ricordo quel momento, per il sole.

Ma lo ricordo anche perché mi aveva colpito il discorso della mia amica. “Io mi riduco sempre all’ultimo” mi aveva detto, “aspetto sempre di arrivare a ridosso della scadenza, e a quel punto non ho più scuse. Mi chiudo in casa e scrivo per ore e ore, per intere giornate, finché non ho finito. È faticoso, ma non ho alternative.” E poi, passeggiando tra le bancarelle assolate, aveva pronunciato le frasi che mi avevano colpito di più: “Alla fine, mi piace pure immergermi per ore e ore nel lavoro. Entro in un flusso molto produttivo e ho tantissima energia.”

Mi aveva colpito questa sua affermazione perché a me, invece, non capitava mai. Questo flusso di concentrazione, questa immersione completa mi erano sembrate cose bellissime e invidiabili, ma del tutto irraggiungibili.

A me facevano paura, e hanno continuato a farmi paura per tanto tempo. Quando pensavo a un’attività totalizzante, venivo presa dal panico. Mi sembrava che mi venisse tolta la sedia da sotto il sedere e che si riducesse lo spazio intorno a me. Mi sentivo quasi spogliata dei miei vestiti, in balia di venti inarrestabili.

O, per riassumere tutto in un unico concetto, mi sembrava che i miei contorni venissero cancellati, come ho già scritto qui. Come se iniziassi a diventare parte dello spazio circostante, perdendo sempre più pezzi del mio corpo.

E, quindi, l’unico modo per sopravvivere era quello di evitare in ogni modo la procrastinazione.

Non per cose piccole e innocue, come lavare il mio zaino, che è sempre sporco, fare una lavatrice con i vestiti di lana, lavare i golf (a quanto pare, la mia procrastinazione dà il meglio di sé con la lavanderia). In questi casi, non c’erano immersioni di concentrazione da fare, ma solo immersioni di lavatrici.

In tutti gli altri casi, invece, la procrastinazione andava evitata.

A un certo punto, direi un anno fa, ho rimesso un po’ in dubbio i miei pensieri sulla procrastinazione.   

Ne sono caduta vittima anche io.

Più che procrastinare, ho calcolato male (molto male) i tempi. Forse, in realtà, è questa la vera procrastinazione: pensare di impiegare due giorni a fare cose che ne richiedono dieci. Fatto sta che sono stata costretta a un’immersione totale per riguadagnare il tempo perduto. Pagine e pagine scritte in poco tempo e libri studiati in cinque giorni.

Sono stata presa dall’ansia. Mi sono sentita senza contorni. Ho maledetto tutto quello che potevo maledire e mi sono chiesta come avrei fatto a passare delle giornate senza tutte le attività solite come lo yoga, la spesa, l’ascolto di podcast, la lettura di svariate newsletter, la preparazione di dolci.

E la risposta è stata: ci sono riuscita benissimo. Niente era davvero fondamentale, a quanto pare. Non sono stata spazzata via dalla sedia, né dai venti inarrestabili. Ma, soprattutto, ho capito quello che intendeva la mia amica anni fa. Ho assaggiato quell’energia, quella soddisfazione, quell’immersione.

Mi sono detta: “è proprio così che bisogna vivere”.

La mattina dopo, terminata la scadenza, ho ripreso a fare yoga, ad ascoltare un podcast mentre preparavo un dolce e andavo a fare la spesa.

L’immersione è bella, ma alla lunga è faticosa. E un po’ di contorni li leva, secondo me.

 

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