I contorni delle cose
La scorsa settimana ho raccontato di quando era estate, il
telefono squillava e io venivo presa dal panico se una mia amica mi invitava da
qualche parte. O, almeno, il panico era la mia prima reazione. Poi mi abituavo
e mi adattavo all’idea. Dopo un po’, a volte, diventavo addirittura interessata
e contenta, soprattutto se frequentavo uno degli ultimi anni di liceo.
Ma, all’inizio, mi veniva il panico. Guardavo le pareti del
salotto, bianche, con i libri e i quadri, e mi sembravano la cosa più bella da
osservare in quel pomeriggio in cui, invece, venivo invitata a uscire fuori. Non
avrei potuto prendere la scala e osservare i libri negli scaffali più alti, dove
avrei di sicuro scovato qualcosa di interessante. Era una cosa che non facevo
mai, ma avrei potuto iniziare proprio quel pomeriggio. Pensavo alle bevande
fresche nel frigorifero che non avrei potuto bere. Osservavo il modo in cui la
luce passava attraverso le persiane semichiuse e mi sembrava più bella degli
altri giorni, ma forse era solo perché, gli altri giorni, non la degnavo di uno
sguardo.
Mi immaginavo chiusa nella mia stanza e circondata dalle mie
cose, mentre sapevo che, invece, sarei dovuta uscire fuori. Il pensiero di
staccarmi per qualche ora mi riempiva di tristezza. Guardavo i quaderni che avevo
già preparato sulla scrivania, i libri che volevo continuare a leggere, il film
che avrei voluto vedere. Nonostante queste premesse, era molto raro che decidessi
di non uscire, perché avevo paura che la mia amica non mi avrebbe voluto vedere
mai più, come dico qui. Quindi uscivo e mi veniva l’ansia.
Mi veniva
l’ansia perché avevo paura di perdere i contorni. Ma quali contorni, e
come? È una domanda difficile.
Stamattina, tornando a casa, sul lato di una delle strade
che faccio sempre in bicicletta, c’erano i camion di quando si gira qualcosa, quei
camion bianchi e grossi, squadrati, con il simbolo di una pellicola
cinematografica in blu (o, almeno, in genere è in blu). Ho ripensato a tutte le
volte in cui sono andata anche io a girare qualcosa. Il giorno prima di andare
ero sempre agitata, perché avevo paura di perdere i contorni.
Non so spiegare bene questa paura. È come se, una volta
staccata da tutte le abitudini, da tutte le solite cose, dagli orari, io avessi
paura di non trovarmi più. Come se io fossi rimasta dentro a una sveglia,
infilata tra le pagine dell’agenda, in un libro letto sempre nello stesso
momento, dentro alla stessa tazzina del caffè.
Non ritrovo più le mie coordinate, come se io fossi un luogo
da cercare su una carta geografica, che può essere trovato solo con quella
combinazione di punti.
Se ne vanno via i contorni tra me e il resto e divento un
pezzo di paesaggio, un camaleonte che è diventato dello stesso colore delle rocce
intorno a lui.
La paura di perdere i contorni si infila nelle amiche che
chiamano per invitarmi, nei set in cui si gira qualcosa. Nei viaggi, nelle prove
di teatro che durano intere giornate, intere settimane. Ma anche nello studio
per un esame, che fa focalizzare la mia attenzione e il mio tempo interamente
su una cosa. Nei progetti in cui qualcuno mi coinvolge all’improvviso, anche se
sono progetti che mi piacciono. Il perdere i contorni è molto collegato alle
cose che accadono all’improvviso.
Nel tempo ho fatto molte scoperte su questa perdita dei contorni,
ma a me continua a fare paura. Quindi, se sono lasciata sola, non mi ci butto
mai dentro. Nella scrittura, che è la cosa che mi piace di più, non lo faccio mai. La osservo da lontano, come quando al mare si mette un piede nell’acqua,
si decide che è troppo gelata e si corre via. Al mare, quando l’acqua è ghiacciata,
io non vado mai via, anzi, diventa un punto d’onore riuscire a fare il bagno,
anche se dopo tremo ininterrottamente. Ma quando scrivo lo faccio. Osservo da
lontano, non mi butto. Ho paura di perdere i contorni, senza nessuno pronto a riacchiapparmi per tirarmi su.
E così non vedo che la perdita di contorni ha anche dei
benefici.
Quando andavo a girare qualcosa, spesso mi alzavo alle
cinque e mi venivano a prendere in macchina per arrivare sul set. Io non
pensavo a nulla, provavo solo a dormire con la testa sul finestrino. Altre
volte trascorrevo minuti interminabili nello stesso posto, osservavo il cielo o
quello che facevano le altre persone. Una volta ho passato una giornata intera
a un distributore di benzina sperduto nel nulla, tra le pause camminavo nella piazzola
ed entravo nell’autogrill, osservando le reazioni delle persone al mio costume
di scena. Un’altra volta ho passato ore a tuffarmi in piscina. Altre volte a
entrare e uscire da una piscinetta gonfiabile. Altre volte ho fatto docce
interminabili. (L’acqua è stato un tema ricorrente, e sono sempre morta di
freddo. Sempre, anche con quaranta gradi all’ombra. Se ci si butta vestiti in
piscina per ore e ore si avrà sempre freddo). Sono stata tanto ferma. Mi sono annoiata. Quando
mi hanno detto che potevo andare via ho guardato che ora era mentre ero in
macchina. Sono tornata a casa, una persona senza contorni, ma ho scoperto che
li avevo ancora tutti.
Quando facevo le prove a teatro per tante ore di fila, a
ogni pausa in cui si usciva fuori dalla sala la luce era un po’ diversa. Poi,
mentre tornavo a casa, era proprio strana, storta, eccessiva. Era la luce che
per tanto tempo era stata nascosta. Però, mentre la osservavo tornando a casa, mi sentivo
addosso tutti i contorni.
Anzi, avevo solo quelli che volevo avere, era questa la
differenza. Gli altri, quelli che avevano bisogno di orari e abitudini per
esistere, si erano persi. Quelli che erano rimasti, invece, si erano approfonditi,
come se fossero stati ripassati con il pennarello.
Non avevo potuto
infilarli dentro quello che avevo accanto, avevo dovuto portarli appresso con me.
Photo by George Pagan III on Unsplash
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