Gli sport e la competizione (e un body blu)
Sul vecchio armadio di quando ero piccola, che è nella mia vecchia
stanza a casa dei miei genitori, sono attaccate delle polaroid in cui indosso
un body blu. Ero in terza elementare e, quell’anno, avevo fatto ginnastica
ritmica. Avevano scattato tre foto a tutte quante, una bambina alla volta,
sedute su uno di quei palloni enormi da palestra, accanto ad altri attrezzi.
Io avevo attaccato le fotografie sull’armadio perché mi piacevano
molto, mi sembrava che creassero un’idea di me che non era del tutto reale, ma
che mi piaceva immaginare, l’idea di una bambina che sorrideva con un body blu.
Una bambina che, a guardare la foto in cui era seduta in mezzo agli attrezzi,
avrebbe potuto indossare sempre quel body blu scomodissimo e bellissimo. Una
bambina che avrebbe potuto essere bravissima a ginnastica ritmica.
Invece, io non lo ero. Il massimo momento di gloria del mio anno
di ginnastica ritmica era stato quando la maestra, per la prima volta, ci aveva
fatto provare la spaccata frontale. Lei l’aveva fatta con tale calma e
naturalezza che, quando era stato il mio turno, avevo spalmato le gambe a terra
proprio come lei, perché sembrava davvero facile. Questa mia spaccata perfetta,
la prima e ultima della mia vita, era durata due secondi. Avevo subito
sollevato le gambe con uno scatto, in preda a fitte di dolore.
L’anno dopo avevo cambiato sport. Mi ero iscritta a pallavolo, ma
non ero diventata particolarmente brava neanche lì. Così ero tornata a
ginnastica, questa volta con un body rosa con il bordino lilla, che mi piaceva
molto meno. E poi, l’anno dopo, mi ero iscritta a basket, che era lo sport che
avevo fatto prima di ginnastica ritmica. Continuavo a passare da uno sport
all’altro, sperando di trovarne uno in cui fossi brava.
I miei genitori mi dicevano sempre che non c’era nessun problema.
L’unica cosa importante era che ne facessi sempre uno, perché mi faceva bene, e
che non fosse troppo lontano da casa. Per il resto, ero libera di fare come
volevo. A volte, però, avrei voluto che mi costringessero. A volte avrei
desiderato che fossero come quei genitori che avevano iscritto i figli a
ginnastica o a danza quando erano piccolissimi e che, ogni anno, li forzavano a
continuare per diventare molto bravi. In questo modo, forse, anche io lo sarei diventata,
avrei avuto accesso a quel mondo che aveva il nome strano di agonismo, e che
sembrava emanare un’aurea speciale intorno a sé.
Quel mondo, invece, mi è sempre stato precluso.
Con il tempo, ho iniziato a essere contenta di non essere brava negli sport. Dà una grande tranquillità, permette di pensare ad altro.
Mi fa approcciare lo sport concentrandomi solo sull’idea di farlo,
non su come lo faccio. Quando andiamo ad arrampicata, A. conta il numero di vie
che riesce a completare, ed è frustrato se non riesce a chiuderle. Io, invece, conto
i minuti, preoccupandomi solo di quanto tempo resto in palestra. Qualche volta
capita che mi appassioni e resti di più, così come può accadere che mi arrabbi
per non riuscire a finire una via, o gioisca per averne finita una difficile.
Ma, per me, il punto non è quello. Il punto è aver fatto uno sport, non averlo
fatto bene.
Questo è sempre vero, per tutti gli sport, ma con alcuni è più
difficile.
Di tutta la lista di sport sempre diversi che ho fatto, il nuoto è
stato il primo. È anche quello che, da bambina, ho fatto per più tempo,
resistendo per oltre un anno. L’ho iniziato da piccola, verso i quattro o
cinque anni. Solo che, quando mi sono stufata, a metà del terzo anno, i miei
genitori sono stati gentili e comprensivi e mi hanno permesso di cambiare
sport. Se fossero stati competitivi e attenti solo ai risultati, invece che al
mio benessere, sarei riuscita forse ad accedere a quel mondo precluso
dell’agonismo.
Non so se questo slancio verso l’agonismo negato sia rimasto quando
vado in piscina. A prima vista no, perché nuoto solo a rana, che è il mio stile
preferito. Dorso ha il doppio inconveniente di farmi accecare dal sole, visto
che la piscina è all’aperto, e di costringermi a stare sempre attenta a dove mi
trovo per non andare a sbattere. Stile libero mi sta antipatico e delfino mi è
sempre sembrato troppo faticoso.
Ma è anche vero che, quando vado a nuotare, detesto se qualcuno mi
costringe ad andare più lenta. È una cosa che non può accadere, e io supero
sempre, anche se c’è poco spazio, anche se è scomodo, anche se rischio di andare
addosso agli altri. Io devo andare sempre più veloce e devo fare sempre lo
stesso numero di vasche.
Ma, anche qui, non so se poi si tratti davvero di competizione e di
risultati. In fondo, quello che mi importa è soprattutto nuotare e perdermi nel
movimento ritmico. Alla fine, forse, non mi importa di essere brava neanche lì.
Non mi importa di essere brava ed è bellissimo.
Forse, però, tutto questo non è vero. È solo una magra
consolazione per non essere brava.
Qualche settimana fa, al mercato, la moglie del contadino da cui vado
sempre mi ha raccontato che fa pilates. “Prima ho fatto per tanti anni nuoto,
poi tennis. Ma poi ho smesso, perché volevano sempre farmi fare le gare. E io
non le volevo fare. Io volevo solo divertirmi ma, a quanto pare, sono molto
portata. Ma le gare non le voglio fare.”
Io ho annuito convinta, mentre una voce nella mia testa le urlava:
“No! Dovevi fare le gare! Io avrei fatto le gare! Non è giusto!”
Photo by Taylor Simpson on Unsplash
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