In bilico su un filo sottilissimo

 


A volte la mia testa parte per dei ragionamenti tutti suoi in cui si interroga sul senso delle cose.

Senza nessun motivo particolare, magari solo perché sono in metro e ho finito il libro che stavo leggendo, oppure l’ho infilato nello zaino per prepararmi a scendere.

È capitato un po’ di giorni fa mentre ero, appunto, in metro.

Avevo passato molte ore delle giornate precedenti a imparare dettagli sulla vita di Petrarca per un esame. I suoi rapporti con i potenti, le sue opere, tutte le lettere che scrive ai papi per chiedere sempre la stessa cosa, ovvero di riportare la sede papale da Avignone a Roma, senza ottenere quasi mai successo. Ma anche dettagli più piccoli, come il fatto che nel suo testamento lascia a Boccaccio i soldi per comprarsi un cappotto pesante per scrivere quando fa freddo e che lo stesso Boccaccio, quando Petrarca si trasferisce a Milano, lo accusa di essere diventato “un bifolco lombardo”.

Stavo proprio tornando dall’esame quando si è fatta strada la voce nella mia testa.

Mentre ripensavo alle risposte scritte nel compito e mi compiacevo di averle sapute tutte (dettagli sull’amicizia con Boccaccio compresi), lei mi chiede: “E allora? Che ci fai?”

Anche se sono presa un po’ alla sprovvista, le rispondo subito: “Allora sono contenta di essere andata bene, di aver imparato tutte quelle cose, di averle scritte bene nel compito.”

Però lei continua a insistere: “Ma a che ti serve?”

E io lì tentenno. Le dico che mi serve per andare bene all’università e poi per finirla in tempo e finirla bene e poi per insegnare.

Mentre parlo, però, mi rendo conto di due cose. La prima, forse la più terribile, è che sto parlando come un’opera di Petrarca in cui lui dialoga con Agostino, una sorta di voce della sua coscienza. Non sto dialogando con Agostino, ma sto sempre intrattenendo un discorso con la mia testa. La seconda cosa di cui mi rendo conto è che c’è un’altra ragione dietro al mio studio.  

La ragione è che io voglio essere brava.

Più di tutte quelle cose che ho elencato sopra, più di tutti quei bei motivi razionali, io lo faccio per essere brava. Anche se penso che tutti i dettagli scritti sui libri non servano molto, io li voglio sapere tutti. Anche se mi dico che potrei anche sapere un po’ meno, perderci meno tempo e accontentarmi di un voto peggiore, poi non va mai così. Quando, seduta al mio tavolo, ripeto, tutto acquista un senso se i vari dettagli si parlano tra di loro.

Solo che lo trovo un po’ inutile. Non inutile in generale, ma inutile rispetto a tutto il resto.

La mia testa ha iniziato a parlarmi mentre leggevo un libro sulla crisi climatica. La mia testa inizia spesso a parlarmi in questo modo quando leggo o ascolto cose sulla crisi climatica, come dico anche qui.

È come se i dettagli che leggo sui livelli di CO2, sull’aumento di temperature e sui divari tra il Nord e Sud del mondo facessero scattare qualcosa nella mia testa. Probabilmente è un modo che ha per cercare di gestire il mio senso di impotenza e la mia frustrazione.  

E allora, lì seduta sul sedile della metro semivuota di metà mattina, mentre mi sentivo leggera, soddisfatta e un po’ affamata, ho iniziato a mettere in relazione tutte le cose che faccio, a partire dallo studio delle lettere di Petrarca, con il mondo enorme, sconfinato e complesso. E non è mai una buona idea.

Mi sono sentita come in bilico su un filo sottilissimo. E in questo filo c’ero io con il mio zaino pesante e molto sporco di una marca sostenibile, insieme al mio giaccone di un’altra marca sostenibile, e dentro a tutte queste marche sostenibili navigava la mia ansia. E stavamo tutti quanti in bilico su quel filo, in cui sembrava non esserci spazio per altro.

Su quel filo, le piccole cose che mi circondano sembrano allo stesso tempo piccole e pesantissime. Piccole per lo spazio che occupano nel mondo, pesanti per come le tratto io. Le tratto come se fossero grandi, e invece sono piccole, mentre il mondo fuori, quel mondo con tutti quei livelli sballati che mi fa paura, quello è grande.

Solo che io ne vedo solo un pezzetto, e quel pezzetto che vedo a me sembra grandissimo. E sentirmi brava dentro ai miei pezzetti mi fa sentire un po’ al sicuro, mi fa sentire salva per un po’.

Ho una specie di corazza che mi protegge, che mi dà uno scopo e che mi fa vedere che lo posso raggiungere. La parte difficile forse non è annullare quel risultato, come vorrebbe fare la voce nella mia testa, ma è trasportarlo nel mondo grande e complesso, ricordandosi che è grande e complesso.

 

Foto di Noah Buscher su Unsplash

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