La paura, la crisi climatica (e la radio)
Spesso cerco di dimenticare la paura che mi fa la crisi
climatica.
Le rare volte in cui, la mattina, la radio ne parla, io
provo uno strano fastidio. Una parte di me è contenta di sentirne parlare, l’altra
parte di me si sente colta alla sprovvista. Non è come quando sono io a
decidere di ascoltare qualcosa sull’argomento. Quando avviene all’improvviso mi
sento impreparata. Continuo a fare yoga come se niente fosse, ma mi sento scoperta.
Ascolto e provo subito a dimenticare.
Mentre finisco yoga, preparo il porridge, rifaccio il letto,
provo a contrappore qualcosa a quello che ho ascoltato. Faccio liste di cose
nella testa, liste che dovrebbero placare la mia paura e farmi sentire una
persona migliore. Dopo scrivo quell’articolo sulle emissioni, poi quello sugli
oceani; vado a parlare in una scuola, partecipo a una manifestazione. Le liste
non funzionano tanto bene, però, perché mi sembra solo di prendermi in giro.
La verità è che mi sento inutile, anzi, la verità è che non
vorrei pensare a tutti questi argomenti. E anche le cose che faccio, in realtà,
non le vorrei fare. La verità è che io, invece di andare alle manifestazioni,
me ne starei volentieri a casa, perché faccio fatica a stare in mezzo a tante
persone.
La verità è che, invece di scrivere un articolo sugli oceani,
io lo scriverei su un libro che ho letto. Oppure non scriverei un articolo ma
una storia.
Me ne starei a casa a leggere e a scrivere. A fare tisane.
Comprerei libri e passerei il tempo a leggerne il più possibile.
A scrivere storie il più possibile, come se non esistesse altro.
Passerei il tempo a studiare per diventare insegnante, senza
pensare che dovrei studiare anche altro.
Andrei a correre, ad arrampicata, in bicicletta, farei yoga.
La verità è che faccio tutte queste cose. Ma le faccio
sempre con quella paura nella testa. La paura si porta appresso tante altre
cose. Il senso di colpa che mi martella dicendomi che non faccio abbastanza. La
frustrazione nel sentire che quello che faccio non è sufficiente e sembra, a
volte, non portare a niente.
La rabbia di dover pensare agli oceani, alle emissioni, alle
piogge, alle temperature, mentre io, invece, ne farei anche a meno. Ci penserei
solo quando proprio mi va.
Vorrei sentirmi legittimata a pensare ad altro. A pensare se
voglio avere un figlio oppure no non in termini di impatto ambientale,
combattendo con le voci che dicono che se tanto ci aspetta un tale disastro
tanto vale non averlo, un figlio.
Vorrei pensare a quello che mi piace fare e basta. Pensare di
poter insegnare letteratura e storia (e anche geografia, che di recente ho rivalutato)
perché è quello che mi piace. Senza pensare che tutto deve essere utile per
risolvere qualcosa.
E invece mi sento spesso in trappola in questa crisi, perché
sembra minacciarmi di togliermi quello che mi piace. Non perché me lo toglie
davvero, ma perché mi spinge a pensare che sia superfluo. Mi spinge a pensare che
potrei anche fare altro, e che quello che faccio non è davvero utile.
Mi spinge a fare liste che spero risolutive e che, invece,
non placano la paura.
La mattina, quando finisco di fare liste nella mente, di rifare
il letto e di stendere, se ho anche questo slancio, mi riscaldo il tè e mi
siedo alla mia scrivania.
Apro il computer o il quaderno, o entrambi. Scrivo una
storia. La lista si interrompe.
Per un po’ di tempo, mentre scrivo, la lista mi dà tregua. La
paura mi dà tregua. Accade anche quando leggo. La mia paura non scompare, ma se
ne va per un po’.
Le storie fanno placare la lista nella testa. Così, quando
le metto da parte, ho un po’ di energia per occuparmi delle cose di cui è fatta
la lista.
Photo by Alex Blăjan on Unsplash
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