I treni, le stazioni e i ritardi
Un paio di settimane fa ero alla stazione e ho pensato la cosa
che penso ogni volta in cui sono alla stazione, ovvero: “Ah, vorrei venire più
spesso alla stazione”.
Che poi non è proprio vero, perché le stazioni sono posti frenetici
e pieni di gente che va di corsa, e quindi non sono esattamente i luoghi più
belli da frequentare. Quello che intendevo, infatti, era: “Vorrei venire più
spesso alla stazione per prendere dei treni.”
Non si tratta di un generale desiderio di viaggiare, ma proprio
di prendere dei treni. Non è solo perché detesto l’aereo e il suo essere super
inquinante e non amo guidare,
Mi sembra un piccolo studio in movimento, silenzioso, in cui
leggere e scrivere senza essere disturbata, con un panorama che cambia continuamente
dal finestrino. Questa idea, però, spesso si deve scontrare con la realtà, che
invece è fatta di compagni di viaggio che parlano tra loro per tutto il tempo, raccontando
agli amici i loro piani per Natale e decidendo quelli per Capodanno.
Una di loro, che mi ha accompagnato per tre ore due
settimane fa, ha illustrato nei dettagli il complicato calendario delle sue
cene familiari durante le feste, in cui ogni giorno, dal 24 dicembre al 2
gennaio, si va da un parente diverso, qualcosa che a me è sembrato l’equivalente
di una tortura. Per fortuna esistono gli auricolari, quando non li perdo, e
così i compagni di viaggio possono essere relegati sullo sfondo e il treno torna
a essere uno studio in movimento.
Ogni volta, poi, mi stupisce la facilità con cui si sale sul
treno, con cui si portano quante valigie si vuole, grandi quanto si vuole, con
dentro tutti i liquidi possibili, grandi quanto si vuole.
E poi è facile prenderli, basta osservare il tabellone e leggere
il numero del binario, senza file strane o controlli vari.
Anche se, in realtà, quando ero più piccola non sapevo bene
interpretare il tabellone.
Un giorno, quando andavo al liceo, ho preso un treno per
andare a trovare una mia compagna di classe che abitava fuori Roma. Andavo spesso
da lei, ma forse quella era la prima volta, o forse era la prima volta che ci
andavo senza di lei. Fatto sta che, appena ho visto sul tabellone un treno che
mi sembrava passare nella stessa zona e avere più o meno lo stesso orario, io l’ho
preso.
È stata questa cosa del “più o meno lo stesso orario” a
fregarmi. Non avevo capito che il treno delle 13 e 21 sarà indicato così, non
con 13.25. Quello lì è un altro treno. Non avevo ancora capito che i treni,
almeno in teoria, hanno un orario di partenza preciso, che li identifica.
L’ho imparato quella volta lì, con estrema vergogna, perché mentre
ero già tutta contenta in viaggio sul treno la mia amica mi aveva detto che era
quello sbagliato e la madre aveva dovuto venirmi a riprendere in una stazione
minuscola e sperduta.
Ora ho capito che i treni hanno un loro orario identificativo,
che forse è l’unica loro vera funzione, mentre , per il resto, è un orario
presunto, un’indicazione sulla loro partenza, vaga.
Perché, ovviamente, in questo elogio dei treni c’è una
categoria a parte ed è il loro ritardo. E quello è brutto. In quei casi la
stazione non è più bella, perché si riempie dell’angoscia del ritardo, di tutto
ciò che accadrà come conseguenza del ritardo, di tutto quello che non si farà a
causa del ritardo.
L’immagine che lego più al ritardo dei treni è della
stazione di Firenze, a fine novembre, con il freddo. A. e io siamo arrivati molto
presto alla stazione e scopriamo che il nostro treno, così come la maggior parte
degli altri treni, ha un ritardo di circa un paio d’ore, che si allungano di una
decina di minuti con il passare del tempo. Trascorriamo il pomeriggio in un bar
strapieno, in cui conquistiamo due posti scomodi che non lasciamo più, seduti a
un tavolo davanti a un signore anziano che vuole chiacchierare ma che, per
fortuna, a un certo punto si addormenta.
E poi ci sono gli esempi dei ritardi in altri Paesi, come nel
Regno Unito. È bello prendere i treni nel Regno Unito, perché sono belli e il
panorama dai finestrini è diverso, ma è anche brutto, perché sono carissimi, ma
proprio carissimi.
E forse è proprio per questo che chi li usa poi si aspetta
che siano perfetti, immagino.
Un giorno in cui uno di questi treni bellissimi e cari
arrivava alla stazione di Londra e lo speaker sul vagone annunciava che stava
arrivando con due minuti di ritardo, mentre io sorridevo all’idea di un
annuncio per segnalare due minuti di ritardo, perché due minuti di ritardo indicano
un treno in orario, uno scocciato signore davanti a me ha sbuffato e ha commentato,
rivolto al passeggero accanto a lui: “Beh, d’altra parte, non siamo in Svizzera.”
L’altro ha annuito, sdegnato.
Foto di Giuseppe Ruco su Unsplash
Commenti
Posta un commento