Il panico va in macchina

 


Durante l’ultimo anno di liceo una sera ho preso la macchina da sola per la prima volta. Dovevamo andare al teatro Argentina a vedere uno spettacolo con la professoressa di greco e io sono andata con alcune mie amiche.

Per parcheggiare in un vicoletto dietro a largo Argentina ho buttato giù un motorino.

Al ritorno mi sono persa e sono finita a Piramide, che per me era ben oltre i confini del mondo allora conosciuto.

Ho imboccato via Nazionale nel verso in cui possono andare solo gli autobus e i taxi, e ho preso una multa.

Ho guidato per più di venti minuti con il freno a mano inserito, quando me ne sono accorta i freni non funzionavano più tanto bene e ho rischiato di investire una persona che attraversava sulle strisce a viale Trastevere; le pasticche dei freni si sono rovinate e si sono dovute cambiare.

Mio padre ha riassunto così questo mio primo tentativo in macchina da sola: “Peggio di così non potevi fare.”

Ma, probabilmente, nel corso del tempo ci sono riuscita.

L’argomento della macchina e del panico legato alla macchina è talmente grande e sconfinato che è difficile trovare un unico punto da cui guardarlo.

Incidenti. Due. Era in entrambi i casi colpa mia, ma le esperienze sono state molto diverse. Nel primo caso sono andata addosso alla macchina di un cinese che non parlava l’italiano e che, quando è riuscito a capire che io davo la colpa a me stessa e avevo intenzione di fare il CID, ha dato a me e a mio padre il modulo da compilare chiedendo se per cortesia potevamo scrivere anche il suo nome (cosa un po’ difficile, perché noi non capivamo quale fosse il nome e quale il cognome). Non ha mai alzato la voce, non ha urlato, ci ha perfino ringraziato.

La seconda volta sono andata addosso a un cinquantenne romano con orecchino di brillante e a sua moglie, che mi ha gentilmente sbraitato contro “Mo ti corco di botte!” appena è uscita dalla macchina. Il cinquantenne con l’orecchino ha talmente infastidito i carabinieri arrivati sul posto da essere invitato da loro ad allontanarsi. Dopo essersi rifiutato di fare il CID, aver chiamato i carabinieri e un’ambulanza per portare via la moglie che stava benissimo (e che continuava a ripetermi “mo ti corco di botte”), il giorno dopo mi ha richiamato dicendo di averci ripensato e di voler fare il CID, insultandomi con messaggi infiniti dopo aver incassato il mio rifiuto.

Dopo questo incidente la macchina è stata rottamata. Due mesi dopo ne è arrivata un’altra usata. La prima volta in cui l’ho guidata ho lasciato le luci accese (la macchina precedente era più intelligente e le spegneva da sola) e si è scaricata la batteria. Mio padre è dovuto venire a riprendermi ripetendo: “Questa è una cosa che può capitare a tutti. Il punto è che a te sono capitate prima tutte quelle altre.”

Poi ci sono le volte in cui mi sono persa. Sono tantissime, soprattutto prima dell’avvento del navigatore. A me non piace molto l’idea del navigatore, questo oggetto che ti guida facendoti spegnere il cervello. Ma perdermi mi piace ancora meno. Chiaramente, mi perdo anche con il navigatore. A volte mi perdo anche a causa del navigatore, che mi fa spegnere il cervello. Ma è sempre meglio che non averlo.

Appena sbaglio strada, io inizio a urlare. Non so perché. Non urlo a nessuno fuori dalla macchina, urlo a me stessa e alla macchina. Mi circondo di urla. Quindi mi confondo. Quindi mi perdo di nuovo.

Mi sono persa tantissime volte. L’ultima è stata la scorsa settimana, dentro al parcheggio del pronto soccorso del Policlinico, dove ho chiesto aiuto a due guidatori di ambulanza, le cui indicazioni, però, non sono servite a nulla.

Spesso mi perdo mentre sono presa dalla ricerca del parcheggio. Spesso trovo posti lontanissimi pur di non rischiare di non trovarli. Anche perché le rare volte in cui provo a fare come A., che cerca parcheggio vicino ai posti in cui deve andare, io non lo trovo mai. E poi perdo anche quello lontano. E allora inizio a urlare.

Urlare è una costante del mio andare in macchina. Quando sono da sola, chiaramente. Quando con me c’è qualcuno a condividere l’orrore della macchina non ho più bisogno di urlare. Condivido il mio disagio normalmente.

Urlo quando c’è traffico e mi ci trovo incastrata dentro. Non suono il clacson. Non sbraito agli altri guidatori. Io grido a me stessa. Oppure chiamo mia madre e la assillo dicendole che ho sbagliato a prendere la macchina, avrei potuto fare molto meglio e prevedere il traffico anomalo. Prevedere l’incidente. Potevo scegliere di non prendere la macchina, scegliere di fare altro. Potevo non uscire di casa. Prendere la macchina non ha senso. Resterò per sempre nel traffico e non ne uscirò viva.

Attacco il telefono, urlo di nuovo. Urlando mi confondo, e quindi sbaglio strada. Urlo ancora di più.

Ad un certo punto, per fortuna, arrivo nei posti. Esco dalla macchina. Giuro che non la prenderò mai più. Poi la riprendo sempre.

Mi dico che, così, mi tempro.

 

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