Che bello essere sensibili. O forse no.
Suona sempre come
un bel complimento quando qualcuno dice di un altro: “Tizio è tanto sensibile.”
Mi è sempre
sembrata una bella cosa, anzi, da piccola ambivo a farmi chiamare così, ambivo
a essere io quel Tizio definito sensibile e mi arrabbiavo se qualche altra
bambina veniva chiamata così al posto mio. E non potevo neanche dirmelo da
sola, perché avevo capito che sarei sembrata soltanto ridicola e presuntuosa.
Ma in genere non
dovevo preoccuparmi, perché riuscivo spesso ad accaparrarmi il premio della
sensibilità. Questo mi rendeva molto felice. Essere sensibile si avvicinava al
mio sogno nascosto di essere speciale. Nonostante fossi brava a scuola
e non avessi il disturbo dell’attenzione, con la sensibilità potevo riuscire ad
avvicinarmi a quell’idea di essere anche io un po’ speciale.
Solo che,
crescendo, ho visto che c’era anche una fregatura.
La fregatura non è nell’essere
definita sensibile. Anzi, chi dà questa definizione spesso lo fa con una dolcezza
negli occhi, magari addirittura con un po’ di ammirazione. Ma dentro a quella
parola si nascondono anche altre cose e queste altre cose sono un po’ scomode.
Non sono mai
riuscita a capire se queste cose scomode fossero dentro alla parola sensibile
oppure no, se fossero solo delle interpretazioni che ci mettevo io. C’erano dei
miei modi di fare che sembravano non adeguarsi per bene a quella definizione di
sensibile. Avevo come l’impressione che ci fossero dei precisi comportamenti richiesti
a una persona con quel nome e che avrei dovuto attenermi a quelli.
Il primo di questi
comportamenti, quello che, nella mia testa, si legava subito all’idea di
persona sensibile, era piangere al cinema. Un bel pianto commosso e sofferto
davanti a un film o a un libro mi è sempre sembrato il prototipo della persona
sensibile, il suo marchio di fabbrica.
Ma io, in quei
casi, non piangevo mai.
Non versavo una
lacrima mentre ero al cinema, o davanti a un libro o alla tv.
Ma poi, subito dopo,
mi disperavo.
E non era un
piccolo e dolce pianto commosso, era della brutta e scomoda disperazione.
Ricordo un intero
pomeriggio passato a ululare sconsolata sul tappeto della stanza che dividevo
con mia sorella dopo aver visto Star Wars III. Io non avrei neanche
voluto vederlo, perché sapevo come andava a finire, ma mio padre aveva
insistito e lo avevo accompagnato. Io ero l’unica possibilità per mio padre di
non andare da solo a vedere film come la saga di Star Wars, tutti i Matrix,
il Signore degli anelli e simili. Mia madre si rifiutava di vederli e mia
sorella veniva considerata troppo piccola. Io, invece, mi ero appassionata e ci
andavo sempre contenta (tranne nei momenti in cui mio padre discuteva con gli
spettatori che facevano rumore. In quei momenti sarei voluta sprofondare dentro
la poltrona, ma questa è un’altra storia.)
Quel pomeriggio,
quindi, ero
Una volta, alle
medie, ero arrivata a disperarmi per il finale di una serie tv sotto lo sguardo
incredulo della mia baby -sitter che mi ripeteva: “Ma è solo una serie tv”.
Questa mia
disperazione terribile mi sembrava stonare con la sensibilità, mi pareva un po’
eccessiva. Mi sembrava che, quando le persone dicevano sorridendo “è così
sensibile”, non si riferissero davvero a quello che facevo con la mia
disperazione. Quella non era sensibilità, era qualcosa di brutto e scomodo.
Un secondo
comportamento proprio della sensibilità era, ai miei occhi, una sorta di emotività
molto acuita, che portava a sentire tutto in maniera molto forte. Ma sempre in
modo pacato e bello, positivo. Immaginavo un dolore nel petto che le persone
sensibili portavano addosso con orgoglio e forza. Anche in quei casi, invece,
io mi disperavo.
Qualcosa non andava
nella luce della strada o in quello che diceva una certa persona e io crollavo.
E da lì tutto andava sempre peggio. Non mi sentivo sensibile, ma sbagliata.
Il problema,
infatti, l’implicazione che non andava bene, era la disperazione.
La disperazione era
esagerata e diventava faticosa per tutti. Crescendo, poi, è stata sempre meno
tollerata. “Tutti noi potremmo fare come fai tu e invece non lo facciamo, ci controlliamo.
Perché tu lo fai? È ingiusto” mi ha detto qualche anno fa una mia amica dopo
che mi ero disperata in un contesto in cui sarebbe stato opportuno non disperarsi.
Questa mia amica,
in realtà, non la vedo più. Non a causa di quel momento preciso, in realtà, ma
a volte mi chiedo se quella frase (e altre simili) non abbiano contribuito.
È vero, io ero
stata esagerata. Ed è vero, mi sarei potuta controllare. Però era anche vero
che, se mi disperavo, evidentemente in quel momento non ci riuscivo. Perché poi,
le conseguenze di essermi disperata in un contesto non appropriato le ho sentite
principalmente io.
A me fa molta rabbia
quando la mia disperazione esce fuori. La odio e la detesto. L’unico momento in
cui non la critico è quando qualcun altro lo fa al posto mio. A quel punto, io la
difendo.
Me la tengo stretta
e ci faccio pace, perché mi dispiace. Nella mia testa, la faccio di nuovo
entrare sotto all’etichetta di sensibile, magari un’etichetta un po’ modificata.
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