Viva la concentrazione (o forse no?)




Spesso vado a scrivere al bar perché a casa non mi concentro. A casa faccio altro. Tutte le lavatrici che non ho mai voglia di fare. Mettere a posto il salotto. Spazzare. Spazzare di nuovo. Cucinare, facendo finta che mi piaccia. Divento l’emblema della casalinga perfetta, pur di non fare le cose. Che faccio male, perché non le so fare. Ma così non scrivo.

Allora vado al bar sotto casa.

E accanto a me ci sono le persone che fanno colazione. 

E io ascolto i loro discorsi. 

Ci provo a non ascoltarli, ma è più forte di me. Di solito sono madri che hanno appena portato i figli a scuola. Parlano di maestre, bambini, madri amiche con le quali non si trovano. Soprattutto di madri amiche con le quali non si trovano. Madri che dimenticano di andare a prendere la figlia a casa loro. Madri che fanno commenti sulla loro macchina, che è troppo piccola. Madri che fanno commenti sulla loro forma fisica, così diversa dalla loro (che è meglio).

Io imparo i loro nomi. Poi i nomi dei loro figli. Poi i nomi delle maestre. Poi i nomi degli amici dei figli e delle madri degli amici dei figli. Costruisco un albero genealogico dei figli, dal più piccolo al più grande. Che difficoltà hanno a scuola? Che sport fanno? Imparo ogni dettaglio. 

E non mi concentro.

Mi metto a scrivere quello che dicono loro. E quindi mi deconcentro ancora di più. E questa cosa un po’ mi urta. Ma un po’ mi piace anche, perché non ci sono tanto abituata. Io non sono mai stata quella che non si concentrava. Però ho sempre un po’ voluto esserlo.

Quando ero piccola mi concentravo. Il mio pediatra aveva detto a mia madre che secondo lui io avevo il disturbo dell’attenzione ed ero iperattiva, ma mia madre aveva negato. Nonostante il suo amore folle e incondizionato per il nostro pediatra, uomo che poteva chiamare a qualsiasi ora della notte solo perché magari aveva notato che il mio respiro era appena più affannato, o che il pianto di mia sorella aveva  cambiato suono, nonostante tutto ciò mia madre diceva che “è fissato con il disturbo dell’attenzione, non ce lo possono mica avere tutti. Ti pare che ce l’hai tu, tu quando devi fare una cosa la fai e ti concentri benissimo”.

E io ci rimanevo male perché ce lo volevo avere. Volevo essere speciale, non brava.  Speciale sembrava molto più interessante di brava. E invece io ero brava. Io amavo la scuola. Io andavo bene a scuola, io facevo sempre tutto. Non riuscivo a fare altrimenti.

Dal mio banco accanto alla finestra avevo iniziato a studiare un po’ Giovanni, che invece era speciale. Giovanni, che faceva pentatlon, suonava la batteria, a scuola passava il tempo a smontare le penne e a costruire oggetti sul banco. E la maestra lo rimproverava perché non ascoltava la lezione e non si concentrava, si arrabbiava ma poi diceva che era speciale. Era un po’ geniale. E lo volevo essere anche io. Ma non ci riuscivo. Era faticoso non fare tutte le cose esattamente come andavano fatte. Era faticoso dimenticare di concentrarmi, non cercare di imparare, non fare tutti i compiti.

Ci provavo, nel fine settimana, a fare finta di dimenticare i compiti. Leggevo, giocavo con mia sorella, guardavo la televisione. Ma poi sapevo che i compiti da fare erano lì, scritti sul mio diario, e se non li facevo mi veniva un groppo alla gola e una morsa mi stringeva lo stomaco. 

Oppure provavo a smontare le mie penne o a disegnare invece di ascoltare, ma avevo il terrore che la maestra mi vedesse e mi rimproverasse. E allora sarebbero accadute due cose tremende: uno, io sarei scoppiata a piangere, perché piangevo sempre quando qualcuno mi urlava addosso; due: sarei stata un po’ meno brava agli occhi della maestra, e questo io non potevo sopportarlo. Il bisogno di approvazione si era fatto strada nella mia vita da subito. 

Fin da piccola essere bravi era il punto più alto da raggiungere. Il mio pediatra, dal canto suo, continuava con la sua diagnosi, rifiutata da mia madre.

Finché non approdai in prima media. In una scuola troppo grande, con persone troppo grandi, con troppi professori, troppe materie, troppe cose da ricordare per essere perfetta. E per la prima settimana dimenticai di fare i compiti. Poi, iniziai a piangere un giorno sì e uno no, e mio padre doveva venirmi a prendere. Un po’ mi dispiaceva, ma pensavo anche che, così, anche io ero un po’ speciale, non solo brava. Venivo presa da scuola e mi mettevo a leggere Topolino. Che leggevo concentratissima, ma a questo non avevo pensato. 

Poi mia madre è andata ai colloqui con i professori a fine anno. “Ecco, ora le diranno che non sono brava, ma sono speciale”. Mia madre è tornata. “Mi hanno detto che sei bravissima.  Non se lo spiegano, perché non vai mai a scuola. Ma quando sei a scuola sei bravissima. Non ti deconcentri mai, non sbagli quasi niente ai compiti.” Quindi dalla seconda media ho iniziato ad andare a scuola tutti i giorni.

Al bar sono arrivati quattro professori di sociologia e uno inizia a raccontare il suo viaggio in Spagna per un convegno. Parla di ristoranti improbabili, cornetti ripieni di burro, calamari fritti alla piastra e professori che sembrano usciti da un film di Tim Burton. E io penso che la mia odiata concentrazione sarebbe una gran bella cosa in questo momento.


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