I francesi e mia madre


Qualche settimana fa ho parlato dell’ammirazione di mia madre per i francesi che facevano sporcare i figli al parco. Al contrario degli italiani, loro non avevano paura della pioggia e del vento, i figli si riempivano di fango ed erano felici e contenti.

I genitori francesi erano migliori di quelli italiani, terrorizzati da due goccioline di pioggia. E questa mi è sempre sembrata una cosa bellissima. Quando ero piccola, ero contenta che mia madre avesse come esempio i francesi e mi facesse sporcare nel fango senza coprirmi.

Il problema con i francesi e la Francia, però, era che il loro influsso su mia madre, sulla sua vita quotidiana e quindi, inevitabilmente, su quella mia e di mia sorella, non si esauriva lì.

I francesi erano ovunque.

Mia madre ha vissuto per tanti anni in Francia, fin da quando era bambina, e da piccola mi sembrava che la Francia le fosse rimasta un po’ appiccicata.

Quando ero molto piccola, mi cantava delle ninne nanne in francese che, a detta di mio padre, “le venivano meglio di quelle in italiano, sarà stato per l’influsso del francese”. Mia madre, infatti, è stonatissima.

Non credo di ricordare queste ninne nanne, ma ricordo quando le cantava a mia sorella. Anche se, a dire il vero, a un certo punto mia sorella ha deciso di cantarsele da sola. Funzionava così: mia madre la portava in braccio avanti e indietro nella nostra stanza, dove io cercavo di dormire. Mia sorella, però, restava sveglia a cantare. Non usava altre parole a eccezione di “nanna”, che declinava in diversi modi. Questo perché il vocabolario di mia sorella nei suoi primi anni era molto ridotto. Invocava la nanna e poi, quando il sonno non arrivava, la invocava ancora più forte, quasi urlando. In questo modo, chiaramente, si svegliava ancora di più. E svegliava anche me, se ero già riuscita a prendere sonno.

Questa parentesi sulla ninna nanna cantata da mia sorella a sé stessa forse non avvalora molto la teoria di mio padre sulla bellezza delle ninne nanne francesi, visto che mia sorella, probabilmente, cantava per non doverle sentire.

Ma era vero che tutto ciò che era francese sembrava riuscire meglio a mia madre. In cucina, per esempio. Le crepes, la ratatouille (e se qualcuno le diceva: “Ah, è come la peperonata italiana!”, lei storceva il naso), l’omelette: tutte le ricette che le venivano meglio erano francesi.

I piatti francesi accompagnavano le nostre giornate insieme a parole francesi ripetute in diversi momenti, soprattutto quando mia madre si arrabbiava e ci diceva di smettere di perdere tempo, di sbrigarci. Se dovessi dire la prima parola francese che mi viene in mente, sarebbe “Depeche-toi”. Mia madre ce la ripeteva in continuazione. Prima di uscire, quando dovevamo finire di vestirci, quando dovevamo andare a fare la doccia. E, in mezzo, ne inseriva altre. Non ricordo me o mia sorella chiedere particolari spiegazioni sul loro preciso significato. Era implicito, in un certo senso, lo capivamo dal contesto. A me sembrava un modo un po’ strano e buffo per dire dei concetti che erano chiarissimi.

Una volta, mia sorella, mentre ci stavamo mettendo il cappotto prima di uscire, aveva addirittura provato a lanciarsi in quella lingua strana ma quotidiana e mi aveva detto, seria: “Valeria, mettiti il capuch”, credo intendendo il cappuccio del cappotto. Ma, per il resto, le parole francesi erano solo dette da mia madre. Anche adesso, se è stanca e non ricorda una parola italiana, mia madre mi dice la traduzione francese.

Ma è del tutto inutile, perché io non la capisco. Io non parlo una parola di francese, perché lei non me l’ha mai insegnata.

Per anni ho recriminato questa cosa a mia madre fino alla sfinimento. Perché non mi aveva insegnato il francese? Ogni volta che qualcuno le chiedeva, davanti a noi: “E le bambine parlano francese, no?”, io le lanciavo occhiate furiose.  

Il punto non era la bellezza della lingua francese, che neanche mi piaceva tanto, il punto era che, ai miei occhi, mia madre mi aveva privato di una delle poche cose che avrebbero fatto di me una bambina interessante e speciale: essere una bambina bilingue. Guardavo con incanto chi sapeva una lingua segreta che gli altri non capivano, e li invidiavo.

A poco a poco, quindi, avevo sviluppato un odio per questa lingua che non mi era stata insegnata, ma dalla quale ero circondata. E, insieme alla lingua, avevo sviluppato un odio per i francesi.

I francesi andavano in giro per Roma chiedendo informazioni nella loro lingua e, quando mia madre rispondeva senza problemi, non si stupivano dell’eccezionalità della cosa. A loro sembrava ovvio che noi, a Roma, dovessimo parlare francese con loro.

I francesi, a sentire mia madre, erano sempre più bravi di noi. La domenica mia madre metteva della musica in salotto e le due uniche opzioni erano musica classica o canzoni francesi. Quando andavo al liceo, mi propinava un romanzo francese da leggere dopo l’altro e quando vedeva che in classe leggevamo di nuovo I Promessi Sposi, sentenziava: “Beh, d’altra parte in Italia di romanzo dell’Ottocento c’è solo quello.” E io allora le urlavo contro e le ripetevo che lei, però, era italiana.

La mia ira raggiunse il punto più alto alla finale degli europei del 2000, con la disfatta dell’Italia. Mia madre, che non si era schierata per tutta la partita, passando il tempo a guardare dei disegni di mia sorella, dopo la vittoria della Francia aveva dichiarato: “Ma io tifavo per l’Italia.” Alla finale dei mondiali, sei anni dopo, mio padre e io le abbiamo garantito l’accesso davanti alla televisione solo dopo aver dichiarato il suo tifo per l’Italia.  

Nel tempo ho rivisto un po’ il mio odio per il francesi e la loro lingua, e non la trovo poi così male. A un certo punto, qualche anno fa, ho anche pensato di impararla, ma poi mi faceva troppa rabbia non averla imparata da piccola e non ci sono riuscita. 


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