La timidezza non è poetica
Tanti anni fa, a New York, ho passato un’ora a girare intorno allo stesso edificio. Erano i primissimi giorni dell’anno ed ero in vacanza con la mia famiglia, ma di tanto in tanto mi staccavo e andavo in giro per conto mio. Rischiavo continuamente di perdermi perché non sono mai stata brava a orientarmi e, inoltre, non avevo ancora uno smartphone. Anzi, in quei giorni, mentre andavo in giro da sola, utilizzavo il cellulare di mia sorella, visto che il mio, troppo vecchio, una volta atterrato negli Stati Uniti si era rifiutato di funzionare.
Un giorno mi ero persa dentro Central Park coperto di neve e
un’anziana signora, che doveva avermi notata mentre cercavo di decifrare una mappa
appesa nel parco, si era offerta di portarmi all’uscita giusta.
Quel giorno in cui giravo intorno al palazzo, però, non mi
ero persa, stavo solo trovando il coraggio di entrare dentro l’edificio in cui
c’era una scuola di recitazione che volevo andare a vedere. E poi, una volta
arrivata al piano in cui si trovava la scuola, avevo dovuto trovare il coraggio
per varcare la sua porta e comunicare a qualcuno la mia richiesta. Per fortuna mi
aveva accolto una signora gentile che mi aveva detto che potevo anche seguire
la lezione che stava iniziando in quel momento.
Ero stata per ore seduta su una panca a osservare persone
sconosciute che recitavano, sentendomi leggera, e appena uscita ero andata in
un bar dove avevo preso qualcosa da mangiare per congratularmi con me stessa
per aver vinto la mia timidezza.
Ogni volta mi stupisco della forza della timidezza. Anche se
la conosco da tempo, mi chiedo sempre dove trovi tutte queste risorse.
E, soprattutto, mi chiedo come mai il modo in cui viene rappresentata sia così
diverso dalla realtà. Nella maggior parte di libri e di film mi sembra che le
persone timide abbiano un’aura speciale. Sono carine e delicate, riservate, un
po’ fuori dal mondo. E su di loro c’è sempre uno sguardo benigno, uno sguardo che
le osserva con attenzione.
Nella mia esperienza con la timidezza questo sguardo benigno
è stato quasi sempre sostituito da sospiri scocciati. E la delicatezza io non l’ho
mai sentita: la timidezza mi ha sempre fatto sentire un gigante fuori posto,
come un elefante dentro a una stanza.
Ci sono tante declinazioni diverse della timidezza, tante
situazioni che la richiamano, ma una che mi viene sempre in mente è il momento di entrare in un posto in cui ci sono già altre persone. Non so perché, ma è proprio
l’atto di entrare, di varcare una porta, che mi ha sempre generato una paura
profonda e irrazionale. Anche molti anni prima di girare intorno al palazzo di New York, la timidezza mi bloccava.
Quando andavo alla scuola elementare, a volte capitava che
la maestra mandasse qualcuno di noi nella classe accanto per chiedere qualcosa.
Io speravo sempre che non toccasse a me, perché mi faceva molta paura l’idea di
bussare ed entrare in una classe che non fosse la mia. A un certo punto la maestra
si è accorta di questo mio terrore perché, al momento di scegliere chi mandare,
ha esclamato: “Non mando te perché ci metti sempre tantissimo tempo a decidere di
entrare”. Credo di essermi sentita molto sollevata.
Questa tortura di entrare dentro classi sconosciute si è ripetuta spesso alle medie, tutte quelle volte in cui una professoressa era assente e, in
mancanza di una supplente, venivamo smistati in altre classi. Lì era un po’
meglio, perché la porta della classe l’apriva la bidella, ed era sempre lei ad annunciare
il nostro ingresso, chiedendo alla professoressa quanti posti avesse a disposizione.
Ma gli occhi di tutti erano sempre puntati su di noi e, soprattutto, poteva capitare
che la bidella, per accorciare i tempi, chiedesse a noi di aprire la porta e presentarci
alla classe, mentre lei si occupava di quella a fianco.
Era ancora più terribile, poi, se oltre a farmi vedere dovevo
parlare davanti ad altre persone.
In terza media mi sono iscritta al corso di teatro della mia
scuola. L’insegnate era carinissimo e il corso molto divertente, ma al momento
della recita finale mi sono rifiutata di salire sul palco. Poco prima di
varcare le quinte e apparire davanti a tutti mi sono bloccata e sono rimasta
rannicchiata dietro, su delle scalette, a piangere per la rabbia. Un’altra
ragazza ha letto il monologo che io avevo scritto e il maestro di teatro ha parlato
di me, che ero troppo timida per salire.
Questa timidezza, però, ha subito un vero e proprio
trattamento shock con anni di corsi di teatro, spettacoli e provini. A volte
penso che uno dei motivi che mi spingevano a recitare fosse proprio questo, diventare
meno timida. Mi dicevo che mi piaceva, ed era vero, ma forse sotto sotto c’era
anche il mio istinto di sopravvivenza che mi diceva che dovevo farlo.
Nel tempo la mia timidezza è stata messa a dura prova, ma
continua a resistere.
Ancora mi blocco se devo entrare in posti sconosciuti o se
devo chiedere indicazioni. Un ufficio, un negozio, un locale in cui non sono
mai andata. Ma anche, a volte, gli sportelli delle informazioni e le
biglietterie, posti in cui le persone sono pronte a rispondere alle domande. Se
sono in giro con qualcuno, spesso faccio finta di aver dimenticato qualcosa, come
per esempio di cambiare gli occhiali e di togliere quelli da sole per mettere
quelli da vista, oppure di non trovare la mascherina, che in questi casi è molto
comoda. Così mando avanti loro.
Ma il problema principale della timidezza è che mi fa diventare
rossa. E non è come le dolci eroine timide, con le guance che prendono un po’
di colore. Io sento il viso che si infiamma, la lingua che si arrotola su sé stessa
e il sudore che si diffonde ovunque.
A me la timidezza sembra la cosa meno poetica che ci sia.
Ma ecco che, mentre lo scrivo, già mi sembra più bella.
Photo by David Clode on Unsplash
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