Neve di polline

 


A volte penso di essere immune alla primavera, ma mi sbaglio sempre.

Ho scritto questa riga (e anche questa descrizione di me che la scrivo) con una penna rosa sulla pagina di una pubblicità in una rivista che porto ad arrampicata per leggerla nelle pause. La cosa più bella di arrampicata, per me, è fare le pause. E quando torno a casa. Tutti i momenti migliori degli sport sono quando sono finiti.

(Arrivava fino a qui il pezzo che avevo scritto ad arrampicata, descrivendo me stessa che prendeva appunti sulla rivista, ad arrampicata. È strano riflettere sui tempi diversi della scrittura, su degli “adesso” che non sono veramente adesso, e che sono un tempo ancora diverso per chi legge. Fa venire lo strano giramento di testa dei film con i paradossi temporali.)

Il momento migliore di quando vado a correre è riprendere la bici per tornare a casa. Quando con A. facciamo passeggiate molto lunghe in montagna, il momento migliore è quando scorgo il paese. Oppure quando, un po’ di minuti dopo (sempre di più di quelli che immagino), entro in casa. Quando nuoto, si contendono il primato di momento migliore l’ultima vasca in piscina e l’istante in cui entro sotto la doccia nello spogliatoio.

A me piace molto fare sport, ma la cosa che mi piace di più è il momento in cui sono arrivata alla fine, con il corpo stanco e la mente leggera. Mi piace che la stanchezza sia fisica e facile da sentire e anche relativamente facile da ottenere. Tempo fa avevo letto un’intervista a una fumettista ossessionata dagli sport, in cui parlava di come trovasse facile andare a correre e sentirsi subito euforica, rispetto alla fatica di scrivere un libro.

Immagino che ad arrampicata sarò sembrata un po’ ridicola, con la penna rosa e la rivista. O, probabilmente, non mi avrà notata nessuna delle altre tre persone che erano in palestra oltre a me e ad A. Mi viene spesso in mente la primavera quando sono ad arrampicata perché, in questi giorni, dalle finestre che danno sui campi da tennis si alza una fitta neve di fiocchi di polline.

Qualche settimana fa mi sono incantata a guardarla invece di arrampicarmi. L’ho indicata ad A., che non capiva cosa stessi facendo, ferma sul tappetone, con lo sguardo perso. Lui ha sentenziato: “Sai quanto ci verrà da starnutire”.

La primavera mi sembra sfuggire a una descrizione. Se la guardo fissa, non riesco a coglierla, come se fosse un’entità da osservare con la coda dell’occhio.

L’anno scorso ho parlato dell’Odore della primavera e dei suoi sussurri difficili da gestire. Quest’anno, allora, mi sono messa a cercare cos’altro è contenuto dentro alla primavera.

Per prima cosa, ho provato a sezionare l’Odore, ma non sono andata molto lontano. L’ho trovato composto da gelsomini, glicine e altri fiori a me sconosciuti, ma non basta; credo che ci sia anche qualche altro ingrediente segreto che tiene tutto legato insieme.

Quando andavo alle medie, i sussurri della primavera, insieme all’Odore, erano dappertutto. E mi dicevano: “Non sprecare le tue giornate”. Ma, guardando meglio, mi sono ricordata che dalla primavera si sprigionava anche altro, una sorta di speranza di realizzazione di tutti i miei progetti futuri. Non so cosa fosse, forse la qualità nuova dell’aria, forse le fronde degli alberi più cariche, forse la luce diversa. Ma era come se queste cose si mettessero insieme in dei modi strani e mi suggerissero eventi meravigliosi e fuori dall’ordinario che sarebbero accaduti. Forse era la loro promessa dell’arrivo imminente, ma ancora non troppo vicino, dell’estate. L’estate era una parola grande, che evocava mondi nuovi e che aveva il potere di cadere sui giorni normali e di strappare la loro quotidianità, strappare quello che li rendeva stretti nelle loro solite caselle.

L’estate rompeva tutto e in quel rompere, insieme al terrore che provocava, alla paura del vuoto, c’erano anche queste promesse. Ma non riuscivo a capirle bene e mi sembrava che, in realtà, non accadesse quasi nulla, e mi rintanavo in casa a leggere libri in cui, invece, accadevano tantissime cose. Poi mi mettevo a scrivere storie mie, in cui accadevano un po’ di cose (non troppe, perché mi ha sempre fatto paura inventare troppe cose tutte insieme).

Ripensandoci adesso, però, mi sembra accadessero tantissime cose. Erano quasi tutte minuscole, ma sembravano enormi. Forse questo era il potere dell’estate, farle sembrare enormi.

 

Photo by Hasan Almasi on Unsplash

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