I vestiti e la primavera
Quando mia sorella e io eravamo piccole, a un certo punto
mia madre decretava fosse giunto il momento della maglietta a maniche corte. Magari
era una domenica piena di sole e, per andare a villa Ada, ne mettevamo una.
Non ricordo se la scelta della prima maglietta a maniche
corte dell’anno comportasse particolari difficoltà per me, vista la mia incapacità a decidere, ma non mi sembra. Ero troppo felice per pensarci
o, più probabilmente, era mia madre a sceglierne una per me.
Anche se la fine della scuola non era ancora molto vicina,
anche se non c’era ancora nessun frutto estivo ad eccezione di qualche sparuta fragola,
la maglietta a maniche corte era uno spartiacque. Dopo, tutto era in discesa, in
una corsa verso i vestiti leggeri, i pantaloni corti, la fine della scuola e il
cocomero. E verso il magone in gola quando mi ritrovavo a casa subito dopo la
fine della scuola, prima che iniziassero i centri estivi, a venire travolta
dalla quantità di tempo che avevo a disposizione. Ma quello lo sentivo solo
dopo. Prima, nell’attesa, vedevo soltanto il sole sulle braccia scoperte.
Qualche giorno dopo la maglietta a maniche corte il mio
armadio si trasformava e diventava pieno di vestiti estivi: mia madre aveva
fatto il cambio di stagione. Dubito, però, che da piccola lo chiamassi con
questa parola. Forse mia madre ne parlava così, forse aveva un’espressione di
fatica e terrore nel nominarlo, ma io non lo ricordo. Crescendo, ho capito. L’espressione
cambio di stagione è diventata qualcosa di spaventoso, di declinabile
solo in frasi come “Devo fare il cambio di stagione”; “Ancora non ho fatto il
cambio di stagione”; “Questo fine settimana non possiamo vederci, devo fare il
cambio di stagione.” (Quest’ultima la uso spesso). Tutte le esclamazioni sono
accompagnate da manifestazioni di terrore.
Il cambio di stagione sembra un mostro che incombe e che ha il
potere di ingoiare tutto al suo passaggio.
Quando A. e io abitavamo in un’altra casa, minuscola, ricordo
cambi di stagione terribili e infiniti, in cui dovevo fare incastri complicati
per riuscire a muovermi tra le buste da mettere via.
Quest’anno, invece, potrei aver trovato un modo per aggirare
il mostro.
Ieri ho steso con soddisfazione tutti i miei golf sullo
stendino, inebriata dal loro profumo di sapone e dalla consapevolezza che è la
prima volta in cui li lavo tutti prima di metterli via (cosa che ho fatto
quando sia mia madre che A., in modo indipendente l’una dall’altro, hanno
esclamato “certo che bisogna lavarli prima di metterli via”). Intanto sto
tirando fuori delle magliette leggere, un po’ alla volta, riempiendo lo spazio
lasciato libero dai golf sugli scaffali.
Sto spezzettando l’operazione in vari giorni con la speranza
di neutralizzare l’azione letale del cambio di stagione. Se riuscirò nell’impresa,
non dovrò più pronunciare la fatidica frase “Devo fare il cambio di stagione”, e
sentire una morsa attanagliarmi lo stomaco. Allo stesso tempo, però, resterò ugualmente
intitolata a dire: “Questo fine settimana non possiamo vederci, devo fare il cambio
di stagione”, perché, a rigor di logica, lo sto facendo, quindi non sarebbe
davvero una bugia.
Ho fatto notare i miei progressi ad A., che, però, ha
annuito con sguardo vago. Lui non può capire, perché non fa mai il cambio di
stagione. L’estate mette le stesse magliette a maniche corte che indossa in inverno,
solo che non aggiunge una felpa sopra. Ho provato a spiegargli che così non
vivrà mai l’ebbrezza del primo giorno con le maniche corte e del loro ruolo di
spartiacque, ma non è stato particolarmente toccato da questa mia considerazione.
Una volta in possesso dei vestiti estivi, però, bisogna decidere
quale mettere. Ci troviamo ancora in un periodo da maniche lunghe, magari
leggere? O forse meglio le maniche corte, ma un po’ pesanti, quelle che in
estate non si possono mai mettere? E i pantaloni? Ancora lunghi, magari
leggeri, o già corti? E le gonne? Non è più il momento delle calzamaglie, ma metterle
senza niente sotto forse è un po’ eccessivo. E poi, un conto è la temperatura
all’ora di pranzo, un’altra la sera. Allora dovrei studiare un abbigliamento diverso
a seconda dell’orario, e vestirmi più leggera quando esco per poche ore e a
ridosso del pranzo e in modo più pesante per gli altri momenti. È terribile.
In bicicletta, poi, lo è ancora di più, perché si suda
tantissimo ma si prende anche più vento, due cose che vanno in direzioni opposte.
Qualche giorno fa, convinta di aver fatto la scelta giusta,
sono uscita in bicicletta. Due minuti dopo mi maledicevo per il caldo. Oggi ci
ho riprovato, con un abbigliamento che mi sembrava migliore. Ma il caldo era
aumentato, e dopo due minuti ero nella stessa situazione. Allora ho guardato i
passanti per vedere se loro avevano trovato la giusta combinazione di vestiti.
Ma indossavano tutti golf. O, in alternativa, gonne con le
calze nere, piumini, giacche. Perché? Forse non provano lo stesso caldo che
sento io in bici, ma ne dubito. Forse, semplicemente, non hanno ancora affrontato
il temibile cambio di stagione. Ma non credo sia solo questo. Nella follia di
andare in giro sotto al sole con le calzamaglie o con la giacca di flanella, io
vedo anche altro, vedo una sorta di ostinazione a restare indietro, a non cedere
ancora all’estate, alla novità. Una sorta di ribellione silenziosa all’idea che
sia arrivato già il momento dei vestitini scollati e delle canottiere, senza nessuna
mezza misura. Che cosa fare delle camicette? E delle giacchette leggere? Meglio
metterle per qualche giorno e morire di caldo, ma metterle, invece di lasciarle
dentro all’armadio, inutilizzate.
Non so se sia questo il pensiero comune a tutti i passanti
che ho incontrato nel mio tragitto. Di sicuro, però, lo descrivo con precisione
perché tende a essere il mio. Quando mi trovo in un cambiamento, qualunque esso
sia, io mi sento un po’ spezzata in due. Metto la testa avanti e lascio le
gambe indietro, cercando di attraversare il cambiamento il più lentamente
possibile, a passetti minuscoli.
Solo che, con la testa da una parte e le gambe dall’altra,
rischio anche di spezzarmi.
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