Io e le scelte, vol. 2



Mesi fa avevo scritto un articolo sulle scelte e lo avevo intitolato Io e le scelte, vol. 1, certa del fatto che l’argomento non avrebbe potuto esaurirsi così facilmente e che ci sarebbero stati dei volumi 2, 3 e così via.

Sono andata a ricontrollare tutti gli articoli del blog e ho visto che, invece, non c’è stato alcun seguito.

Non capisco perché. Forse l’argomento delle scelte era talmente vasto che non sapevo scegliere da che parte iniziare per parlarne.

La faccenda delle scelte è sempre stata più grande di me. Qualche anno fa ho chiesto a mia madre: “Ma perché da piccola andavo da una psicologa?”

Assurdo tra l’altro che non mi fosse venuto in mente prima di chiedere perché mai il giovedì io e mio padre attraversavamo Roma per andare nello studio di una signora che mi faceva giocare. Aveva tantissimi giocattoli, il mio preferito era “la sabbia”, ovvero una vasca di sabbia in cui io potevo costruire scenari di ogni tipo usando i pupazzetti, le casette e gli alberelli che aveva in enorme quantità. Poi dovevo descrivere quello che avevo fatto.

Immaginavo sempre che la psicologa vedesse dei significati nascosti in quello che io facevo. Quando disegnavo, per esempio, pensavo che lei potesse capire un sacco di cose dal modo in cui tenevo la penna, dal modo in cui coloravo, dal modo in cui mordevo le labbra per concentrarmi, dalle cose che disegnavo. Pensavo che la psicologa fosse un po’ una strega vestita in modo noioso.

Non avevo chiesto perché ci andavo perché forse ero rimasta traumatizzata da quello che mi aveva detto Irene 1 un giorno all'uscita di scuola.

 Irene 1 si chiamava Irene 1 perché in classe nostra c’era anche Irene 2, che era arrivata in terza elementare ed era anche un anno avanti, quindi essendo arrivata dopo ed essendo pure più piccola era per forza Irene 2.

E Irene 1 mi aveva detto, con la sua solita fermezza: “Dallo psicologo ci vanno i matti”. Quindi io, per sicurezza, avevo evitato di chiedere.

Quello che aveva risposto mia madre rispetto al perché andassi da una psicologa, è stato: “Ci andavi perché avevi il panico per tutto.”

Non è stata una risposta molto chiara. Ho cercato di indagare. Tipo per cosa? Per tutto. Io ti chiedevo che cosa volevi mangiare a colazione e tu arrivavi tardi a scuola perché non sapevi decidere.

Funzionava così:

“Cosa c’è per colazione?”

 “Cereali Frosties, cereali Choco pops, biscotti Bucaneve, Gocciole, pane con burro e  marmellata, pane con solo marmellata, pane con burro e zucchero.”

Il mio sguardo vuoto.

“Me li puoi ripetere?”

 E lei ripeteva. Io chiedevo di nuovo, lei ripeteva di nuovo. Io alla fine dicevo: “Non lo so”.

Il dramma vero delle scelte è che diventano più difficili più passa il tempo. Perché se io ho speso venti  minuti per decidere cosa voglio per colazione, allora quello che scelgo deve essere assolutamente la cosa giusta. La colazione che scelgo dopo venti minuti deve essere la colazione perfetta, l’emblema della colazione, la colazione per antonomasia. Se io ho buttato tutto questo tempo per decidere, allora non mi posso permettere di sbagliare. Che è proprio la paura alla base dell’indecisione. Io non so decidere perché sono certa di fare la scelta sbagliata, e allora aspetto solo che questa ipotesi venga confermata. 

Quando non riuscivo a decidere, mia madre mi diceva: “Se non decidi tu farai decidere il tempo.” E a me faceva rabbia perché non mi sembrava uno scontro alla pari, con gli stessi mezzi a disposizione. Non volevo far vincere il tempo. Ma vinceva spesso. Aspettavo un po’ nella mia indecisione e ad un certo punto era troppo tardi per scegliere, aveva deciso il tempo per me. E io mi arrabbiavo e mi dispiacevo, ma ero anche sollevata: non dovevo affrontare le decisioni, solo arrendermi alle conseguenze.

Lamentarmi delle conseguenze. Dispiacermi per le conseguenze. Struggermi per le conseguenze. 

Molto raramente, rallegrarmi per le conseguenze. Erano esattamente le conseguenze che volevo. Ma questo non me lo dicevo. 

Avrebbe voluto dire che ero stata io a decidere e non il tempo. 

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