Stare nel passato



Qualche anno fa una mia amica mi ha detto che secondo lei sembravo uscita da un’altra epoca. Non mi sembra abbia specificato quale, né il motivo di questa sua affermazione, ma per me è stato uno dei migliori complimenti possibili.

Non so se la mia amica lo abbia detto solo per farmi piacere, pensando che per me sarebbe stato un grandissimo complimento. Forse per lei non era un complimento, ma una sorta di constatazione inevitabile, neanche troppo positiva. Non ho modo di scoprirlo, perché con questa mia amica non parlo più, ma questa rimane una frase meravigliosa.

Era estate, eravamo sedute sullo scalino di un bar siciliano sotto casa sua a mangiare una granita alle mandorle. Era pomeriggio e c’era tantissimo sole. Io avevo un vestitino nero molto rovinato che ho comprato a un mercatino dell’usato l’ultimo anno di liceo e che mi ostino a non buttare, sopra al quale avevo infilato una magliettina troppo corta. In questo modo il vestito nero appariva meno consunto e la magliettina troppo corta poteva essere indossata.

Non so se il commento della mia amica fosse nato proprio osservando i miei vestiti. Forse era partito da qualcosa che avevo detto. Non ricordo nulla, solo il suo commento meraviglioso e la granita.

Quando ero piccola aspiravo a essere dentro a un libro e tutti i libri erano nel passato. Anche quando si trattava di un passato molto recente, un passato che neanche lo sembrava, passato, a me sembrava comunque lontano. Era come se il fatto di essere scritto in un libro consegnasse qualunque avvenimento al passato.

Tutti i libri erano in un altro tempo, in un “c’era una volta” più o meno vicino.

E io volevo stare dentro a quel “c’era una volta”. Anche dopo aver capito che era una missione destinata a un fallimento inevitabile, qualche traccia di questo desiderio è rimasta.

È rimasta, per esempio, in un’avversione totale ai cambiamenti tecnologici; avversione che, a dir la verità, ho preso da mia madre, che la possiede in misura molto maggiore. Per anni, per usare il lettore dvd, ha utilizzato le istruzioni date da mia sorella, che poi lei ha trascritto su un foglietto. La stessa cosa è accaduta per il lettore cd. A volte sono cattiva e le dico che la nonna di A. fa partite di burraco online e sa usare Facebook. La verità, però, è che anche io ho un simile rifiuto per la tecnologia. Lo metto da parte solo in rare occasioni, ovvero quando percepisco che alcune persone più grandi di me danno per scontato che io, in quanto più giovane, sia esperta in queste cose. Per qualche attimo, allora, abbraccio questa nuova versione di me che loro mi consegnano, questa versione di me che non teme la tecnologia, che si muove con fiducia in questo mondo di tecnologie sempre nuove. La abbraccio con un certo timore, però, perché ho paura che si accorgano della fregatura.

Il resto delle volte il mio rapporto con la tecnologia è frustrante e fallimentare, e culmina con urla disperate se il computer non fa quello che dico io. Se A. è a casa, viene in soccorso, e mentre risolve il problema mi obbliga ad andare via, affinché la mia sola presenza non impedisca al pc di funzionare. Io mi lamento e dico che una cosa del genere non è possibile, si tratta di una coincidenza. È pur vero, però, che in molti casi è accaduto così.

Non rifiuto tutta la tecnologia, ovviamente, come dimostra il fatto che sto scrivendo queste righe su un pc; ma mi ostino a trovare alternative, come dimostra invece l’aver scritto la prima parte di questo articolo con la penna stilografica. La mia penna stilografica ha una cartuccia con lo stantuffo e io compro boccette di inchiostro per riempirla. Io non sono affatto precisa e molte volte sporco fogli, vestiti, e tovaglie, lanciando urla disperate. Nonostante questo, continuo a usarla.

Allo stesso modo, ho difficoltà a leggere cose non scritte sulla carta. A volte leggo articoli che non mi interessano troppo al posto di altri che mi interessano tantissimo, per il solo motivo che i primi sono su un giornale di carta.

Quando mi viene nominata l’esistenza di qualcosa di nuovo, io sono colta da un impeto di rivolta. È come una rivolta del vecchio che mi assale, un desiderio di rimanere come sto. Dico subito no, senza neanche ascoltare.

Quando A. vuole comprare qualcosa su Amazon, io gli propongo di andare in qualche piccolo negozietto di qualche anziano signore. Mi rendo conto, però, che sono piena di contraddizioni. Se un film o una serie tv che voglio vedere è su Amazon Prime, infatti, io la vedo lo stesso. Poi, per compensare, vedo vecchi film su Mubi e mi illudo di essere nel tempo di quei film.

Ma quale tempo scegliere, in quale passato stare? Gli anni Ottanta sono sufficienti? No, bisogna andare ancora indietro. E allora andiamo agli anni Sessanta, agli anni Quaranta, andiamo agli anni Venti. Arriviamo all’Ottocento. In questi ultimi scenari, però, arrivano l’assenza di medicine, la mancanza di voto per le donne, le gonne scomode. Mi immagino nell’Ottocento, miope, senza occhiali, asmatica e con i denti da coniglio. Allora ci ripenso e mi dico che, se non altro per la medicina, va bene andare avanti. Su tutto il resto, però, vorrei stare un po’ indietro. Magari neanche troppo, giusto un po’.

Quello che mi chiedo, però, è se questo mio desiderio di passato sia legato a un rifiuto del presente in cui mi trovo, o se sia legato al rifiuto di ogni presente in quanto tale. Ovvero: io adesso guardo al passato, ma se fossi stata in quel passato mi sarebbe andato bene o avrei cercato un passato rispetto a quel passato?

 

Photo by Florian Klauer on Unsplash

 

 


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