Case che si espandono e che si rimpiccioliscono

 


Spesso chiedo ai bambini a cui faccio lezione cosa hanno fatto a scuola. A volte, in realtà, chiedo come è stata la scuola, se era noiosa o divertente, ma loro non capiscono la mia domanda in inglese e quindi mi elencano le materie che hanno studiato. Quando provo a richiedere come è stata la scuola, come erano quelle materie, mi rispondono sempre “boring”. Provo a cercare qualcosa di interessante, a dire che, magari, qualcosa era anche carino, ma molti di loro confermano con sicurezza che no, era proprio tutto “boring” e basta.

Qualche volta, per fortuna, si salva qualche materia. Spesso è storia, a volte matematica, più raramente italiano o scienze. Non è mai geografia. A volte provo proprio a chiederglielo, come era geografia. È sempre noiosa. Allora io dico che anche per me era noiosa. Lo è sempre stata fino a quando, per fortuna, ho smesso di studiarla. Non capivo il senso di memorizzare liste in cui comparivano quasi sempre gli stessi nomi (le intramontabili barbabietole da zucchero) e, soprattutto, trovavo terribile dover disegnare le cartine con la carta lucida. Rimanevo sempre indietro e qualche volta sono anche ricorsa, disperata, all’aiuto di mia madre, che mi ha consegnato delle macchie informi di colori mischiati in modo strano (mia madre sa a malapena disegnare una casetta stilizzata).

L’anno scorso ho dovuto fare due esami di geografia. Ho approcciato lo studio con rassegnazione e pesantezza, pronta al peggio. Poi, però, è successo qualcosa. Trascorsi soltanto due giorni ho iniziato a passare tutte le mie pause a raccontare ad A. le meraviglie della geografia, i suoi legami con tantissime cose, le sue risorse, il poco spazio che le viene dato nella scuola (dimenticando di essermene rallegrata fino a poco tempo prima). Lui mi ha guardato un po’ perplesso e poi ha commentato: “Ma io non ho mai pensato che fosse brutta”.

Per tre settimane mi sono appassionata alla geografia. Ho letto grafici sulla mortalità infantile nel mondo, sui tassi di istruzione della popolazione, sulla povertà, sull’inquinamento atmosferico e li ho imparati a memoria. Poi ho smesso, perché, nonostante il mio entusiasmo improvviso, mi sono resa conto che dovevo passare ad altre materie.

Ma credo di aver fatto un po’ pace con la geografia, capendo che non è fatta, per fortuna, solo di cartine e di barbabietole.

Non ho fatto pace con l’orientamento, come ho già raccontato qui.

E non sono ancora riuscita a fare pace con la dimensione dello spazio dentro ai libri.

Ho continuato a pensarci e mi sono resa conto che è un problema molto frequente. Un problema enorme, spesso. Non so perché, ma io non riesco bene a visualizzare le cose nello spazio. Le vedo, ma solo se sono piccole. Quando si espandono, io le perdo e non le vedo più. Per esempio, le case. Come si fa a immaginarle per intero? Io riesco a visualizzarne solo un pezzetto, quello spicchio di stanza in cui, in quel momento, stanno parlando i personaggi. Il resto della casa è avvolto da una strana confusione, più che essere disegnato nella mia testa si limita a essere una sensazione, quella che, secondo me, possiede quell’ambiente lì. Appena provo a immaginarlo in maniera più definita diventa impossibile da vedere. Diventa uno spazio troppo grande e mi perdo. Devo riavvolgere la scena che ho appena letto, far uscire i personaggi dalla stanza, rivedere di nuovo la loro casa e provare a visualizzarne i diversi spazi. Ma se sono arrivata a un punto importante della storia non riesco a farlo e vado avanti a leggere, con questi personaggi che restano nelle loro case con i buchi, dentro a stanze in cui mancano i pezzi, che hanno piani sproporzionati e giardini che si estendono in modo strano intorno alla casa. Abitazioni che si ingrandiscono e si rimpiccioliscono.

È ancora peggio quando, invece delle case, ci sono dei paesaggi più grandi. Come faccio a raffigurarmi delle grandi praterie?  Come è possibile visualizzare una strada percorsa da un personaggio in un viaggio? Io la immagino dritta e sempre uguale, come in un disegno semplificato, ma mi rendo conto che non può essere così per l’intero percorso. Quando David Copperfield scappa da Londra e raggiunge la zia a Dover, per esempio, io ho provato a visualizzare una strada sempre diversa, ma non ci sono riuscita. Alla fine, ho immaginato una via lunga e sempre uguale e ho sperato che lui arrivasse presto a destinazione.

Anche le città danno qualche problema, con i vicoli e le piazze. E, ancora peggio, i paesi. Per me i paesi, nei libri, sono tre case attaccate, e non riesco mai a mandare in giro molto bene i personaggi al loro interno, perché non c’è abbastanza spazio. Non riesco neanche a capire come i paesi si legano al loro ambiente circostante, alle montagne e alle valli, non riesco proprio a vederlo.

Non so se questa cosa dello spazio c’entri poi molto con la geografia, ma ci rivedo un po’ del mio rifiuto per le cartine da ricalcare, quel fastidio nel dover trasportare degli spazi su un foglio, spazi che diventavano dei disegnini marroni, verdi, gialli e blu (e, quando era mia madre a farli, un colore indefinito in cui erano tutti mischiati).

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