La scrittura, gli obblighi e il brontolio nello stomaco

 


Quando abitavo a Londra, la mia coinquilina Geat a volte si metteva a cucinare piatti speziati e buonissimi, che puntualmente mi offriva.

Per me era una gran fortuna, poiché la mia cucina consisteva nel cuocere il cibo che avevo comprato senza cercare di dargli un particolare sapore. Mi focalizzavo solo sul suo passare da crudo a cotto, e, quindi, mangiabile. Mi risollevavo il morale sulla pochezza della mia cucina osservando i pranzi di Peter, il coinquilino inglese, che sembravano essere composti solo da pane, formaggio e pomodorini.

Geat bussava alla porta della mia stanza e mi offriva da mangiare. “Ogni volta in cui mi metto a scrivere mi viene fame” mi diceva, “secondo me è il mio cervello che lo fa apposta, per impedirmelo.”

Non so come funzioni il cervello di Geat, ma io mi sono seduta a scrivere e mi è venuta fame. Credo che, nel mio caso, si tratti davvero di fame, e non di un inganno della mente. Ho cercato di tenerla a bada con una sorta di antipasto rubato da una cosa che si stava cucinando per la cena, ma non credo abbia funzionato.

Però, anche se è fame vera, so perché è arrivata proprio nel momento in cui mi sono seduta a scrivere, e non un attimo prima.  

Ieri, mentre ero a letto e pensavo alla giornata di oggi e alla sua pienezza, mi sono chiesta, come sempre: “Quando scriverò?”. Mi sono risposta: “Mai, non avrai tempo” (non credo di parlare a me stessa dandomi del tu, ma è venuto fuori così mentre scrivevo e ho pensato di lasciarlo, anche se mi inquieta un po’). Poi, però, ho sentito una risposta diversa nella mia testa: “Da domani mi metto a scrivere tutti i giorni. L’unica eccezione sono i giorni prima di un esame, perché non ci riesco.”

Sospetto che, a poco a poco, emergeranno sempre nuove eccezioni che ricamerò su misura per dare a me stessa il diritto di non scrivere.

Solo che poi, quando non scrivo, non sono contenta; è strano come io cerchi così tante scuse per non fare una cosa che mi va di fare.

Ma, come tutte le cose che voglio fare, aleggia su di lei lo spettro del non essere brava a farlo. Ho già parlato del mio felice rapporto con il tennis, basato sulla mia non bravura e sulla mia felicità per questa non bravura. Questo stesso sentimento è applicabile a ogni sport e attività fisica, così come, in maniera ancora più forte, alla cucina (ad eccezione di quando mi viene bene una torta e, la volta dopo, mi viene male, e mi arrabbio.)

Riguardo alla scrittura, invece, ho costantemente paura di non riuscire. Ho paura quando non scrivo, perché non sto scrivendo. E ho paura quando scrivo, perché ho occasione di notare con chiarezza la mia incapacità.

Per questo ho deciso di provare ad arginare il problema trasformandolo in un obbligo da seguire, attività in cui sono abbastanza portata. In questo modo spero di non pensare troppo, ma di eseguire soltanto quello che ho deciso di fare.

Solo che, ogni volta in cui decido di fare una cosa, anche la più stupida del mondo, sento una strana tensione dentro al mio corpo, come una forza malvagia che si prepara a scatenare qualunque forza in suo possesso contro di me.

Quando prendo del tempo per dedicarmi a una cosa, quella cosa andrà male.

Non ci sarà silenzio intorno a me, e io non avrò il coraggio di chiederne un po’.

Oppure, nel caso in cui ci sia silenzio intorno a me, io troverò il modo di riempirlo dicendomi che, nonostante il silenzio, non sto combinando niente.

Molto spesso interverrà il temibile mondo di fuori.

Proprio nel momento in cui si inizia a scrivere, proprio quando si caccia per un po’ il mondo di fuori, lui torna con più fermezza, magari sotto forma di brontolio nello stomaco.

E questo brontolio può provocare una serie di reazioni a catena. Prendiamo, come esempio, lo stufato di cipolle e prugne di Geat.

Probabilmente, a casa mancano le prugne, e bisogna andare a comprarle. Sulla strada per il supermercato si incontra un vicino, e ci si ferma a parlare. Sulla via del ritorno si nota qualcosa in un negozio, e si entra a vedere.

Quando si torna a casa e si entra in cucina, si scopre che c’è già qualcuno, come il coinquilino spagnolo che, a differenza di quello inglese, cucina piatti elaboratissimi. Allora ci si mette a chiacchierare. Squilla il telefono. La lavatrice è finalmente libera, e si può fare un bucato.

Da questo momento in poi partono diramazioni pressoché infinite, tutte accumunate da una stessa decisione iniziale: ad un certo punto, all’inizio di questa catena di eventi, ci si è alzati dalla sedia invece di scrivere.

In questo modo, è stata offerta un’opportunità al mondo di fuori per intrufolarsi. E lui, ovviamente, ne ha approfittato.   

Accadono tante cose fuori, ma sarebbe necessario perderle tutte.

Ho provato a scrivere, come nuovo obiettivo da seguire: “Perdere tutte le cose che accadono fuori”, ma sospetto sia troppo vago.

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