Il panico e il non riuscire (e il tennis)
Quando andavo alle medie e al ginnasio, durante l’estate, mentre ero in vacanza al mare, facevo lezione di tennis. Mi piaceva perché andavo la mattina e a me piace fare le cose la mattina, quando tutti dormono. Mi piaceva perché chiacchieravo con il maestro di tennis e gli raccontavo la storia che stavo scrivendo. Lui mi diceva che alcune cose gli piacevano e altre no, come per esempio che ad un certo punto c’era un personaggio con il suo nome che moriva. Non capiva perché dovesse morire, mi diceva: “Ma che senso ha, poi è triste!” e io dicevo che serviva alla storia e che a volte le storie sono tristi. E che a me piacevano quando lo erano, perché facevano piangere e arrabbiare. Io ancora non ero riuscita a capire come fare questa cosa di far arrabbiare e piangere con quello che scrivevo. Come raggiungere la tristezza di quando moriva Beth in Piccole Donne, o la rabbia di quando la maestra Sforza di Ascolta il Mio Cuore urlava contro le due bambine povere.
Un altro motivo per cui mi piaceva andare a tennis era che non ero brava.
Non ero brava e non mi importava particolarmente di esserlo. Pensavo che tanto io scrivevo e inventavo storie, mi importava di essere brava solo in quello, il resto non aveva grande valore. Il tennis era una cosa divertente che mi faceva muovere, visto che non riuscivo mai a stare ferma. Ed era bello perché parlavo tutto il tempo della mia storia, pronta a ritornarci dentro una volta arrivata a casa.
A volte io e
il maestro parlavamo anche dei libri che leggevo, e a poco a poco quel campo da
tennis e le cose che aveva intorno si erano tinte di atmosfere che arrivavano
da altre parti. Accanto al campo c’era un muro di pietra molto alto dietro al
quale si intravedevano una bella casa e degli abeti, e a me facevano pensare a Il
Giardino Segreto, ogni volta guardavo il muro e speravo che succedesse qualcosa
di speciale e, dato che non accadeva, immaginavo che fosse accaduto.
Un giorno, mentre
stavamo finendo la lezione, era arrivato il ragazzo che faceva lezione subito
dopo. Mi sa che non era da solo, ma era con il figlio del maestro di tennis,
forse era un suo amico. Erano tutti e due più bravi di me, soprattutto il figlio
del maestro di tennis, cosa che era abbastanza prevedibile, visto che era il figlio
del maestro di tennis.
Ricordo di aver pensato che
loro mi stavano guardando e io non ero brava. Mi ero preparata a sentirmi in
difficoltà ma non mi ci ero affatto sentita. Avevo continuato a raccontare la
mia storia, a slanciarmi per prendere le palle, a prenderne qualcuna e a
mancarne qualche altra, a correre e ad essere contenta di correre. Avevo pensato:
“Io da grande voglio scrivere, non giocare a tennis. Quindi non mi importa se
loro vedono che non sono brava”.
Mi ricordo proprio
il momento in cui l’avevo pensato, mentre correvo per il campo. Me lo ricordo
bene perché mi ero sentita straordinariamente saggia per i miei quattordici
anni. E perché, subito dopo, i due ragazzi che stavano guardando me e il maestro
di tennis erano diventati trasparenti.
In un attimo erano
diventati invisibili. Potevano anche non esistere. Potevano pensare qualunque
cosa ma questa cosa non sarebbe arrivata fino a dove ero io. Non mi interessava.
A me interessava correre in quel campo e raccontare la mia storia, correre in
quel campo e guardare di tanto in tanto il muro, perché mi sembrava che guardarlo
mi portasse in una storia parallela.
Mi importava di
tutto questo e non mi importava di essere brava a tennis.
Stamattina, mentre
scrivevo, ho iniziato ad arrabbiarmi perché non ci riuscivo. Mi sono arrabbiata
principalmente con me stessa, poi A è capitato nella mia traiettoria e allora
mi sono arrabbiata anche con lui, perché dà più soddisfazione arrabbiarsi con
qualcuno.
Lui mi ha chiesto perché
non ci riuscissi e io gli ho detto: “Perché mi vengono delle idee ma nessuna va
bene. Scrivo due righe e poi mi fermo.” Allora mi sono chiesta perché mi bloccassi.
Un po’, sospetto, perché alcune cose che avevo iniziato a scrivere le trovavo
un po’ noiose ed è orribile scrivere cose noiose, forse ancora più orribile di
scrivere cose brutte. Un po’ perché cercavo di non fare rumore, battevo i tasti
pianissimo e io non so scrivere al computer facendo piano. E un po’, soprattutto,
perché pensavo se quello che stavo scrivendo andava bene.
E quando lo pensavo
vedevo tanti occhi in fila, uno accanto all’altro, che leggevano quello che
stavo scrivendo. Occhi non invisibili.
Allora mi è venuto
in mente di quando giocavo a tennis e i due ragazzi che mi guardavano erano
diventati invisibili. È successa tante altre volte questa cosa, in altri contesti.
Con tutti i tipi di sport, perché a me piace farli ma non sono bravissima.
Con il cucinare e,
in generale, con tutto ciò che riguarda la cucina; con il disegnare, e alla
fine mi sono arresa al fatto che so disegnare solo delle facce, e le so
disegnare fino a quando non hanno gli occhi, perché gli occhi non vengono mai
come li avevo immaginati; con lo studiare cose troppo scientifiche, anche se
questo a volte mi dà fastidio, chiedo ad A se per favore mi può spiegare quello
che ho appena letto, lui inizia a farlo ma io neanche provo a capire, dico che non
capisco nulla e invece tutte le persone che studiano medicina con lui sono
intelligenti, e allora mi inizio a sentire incapace.
Ma questo è un altro
argomento, uno di quelli che avevo provato a scrivere stamattina e mi sembravano
troppo noiosi. Sospetto che fosse perché non riuscivo ad inserire molta ironia.
Solo che è difficile
utilizzare questo metodo con la scrittura, perché della scrittura mi interessa.
Ho provato a dirmi: “In realtà non mi interessa veramente”, ma non funziona. La
maggior parte delle volte, mentre scrivo, non penso al fatto che sto scrivendo,
e allora va bene. Il problema è quando ci penso.
Oggi il campo da
tennis con il suo muro sono accorsi in salvo. Non ho più pensato agli occhi non
invisibili ma solo al campo da tennis e al muro, e a me spettinata che ci
correvo dentro. Non ci ho pensato perché non pensavo più a scrivere, pensavo solo
che volevo continuare a vedere per un altro po’ il campo da tennis.
Cercavo solo il modo di rimanere un altro po’ dentro a quella immagine, con il campo e il muro e la luce della mattina e i miei pantaloncini bianchi e l’orologio colorato. Battevo i tasti per riuscire a trattenere il campo da tennis.
E allora le parole messe in fila non erano più parole che andavano scritte secondo
un qualche ordine. Andavano messe in fila solo per fare rimanere quell’immagine
ancora un altro po’.
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