I termosifoni e i blackout
Stamattina avevo diverse idee su cosa scrivere sul blog e
quindi non riuscivo a sceglierne nessuna. Così, come spesso accade, non ho scelto.
Ho aspettato che le idee si scegliessero da sole. In genere
accade che continuo a farle girare per la testa per vari giorni, fino a quando
una di loro non si afferma come vincitrice.
Questa settimana ho trovato la vincitrice mentre ritiravo i
panni dallo stendino; panni che erano stati appesi per giorni e giorni a causa
della pioggia e del guasto all’impianto di riscaldamento del palazzo. La sera in
cui ritiravo i panni i termosifoni erano stati finalmente accesi, trasformando il
salotto in un luogo accogliente, invece di una landa desolata con correnti di
aria fredda.
Mentre ripiegavo i vestiti ho esclamato: “Scriverò dei
termosifoni!”
Ma la vittoria dei termosifoni, come spesso accade a causa
della mia indecisione perenne, non è stata solida e schiacciante. Mentre facevo
colazione stamattina, si è fatta largo nella mia testa un’altra parola: “blackout”.
Non quello reale, in cui si rimane al buio all’improvviso (e che, nel corso
della mia vita, ha generato diversi momenti di panico), ma il blackout che
avviene nella mia testa quando io entro nel panico. La parola blackout
mi pare calzante, perché rende l’idea di un vuoto in cui mi ritrovo da un
momento all’altro.
Mentre bevevo il tè ho rigirato nella mia testa queste due parole:
termosifoni e blackout. Apparentemente non hanno grandi punti di contatto.
Forse, però, qualcuno ce ne è.
Io ho una grande passione per i termosifoni.
In diversi posti, in diverse situazioni, in diversi momenti,
io ho dei ricordi di me e di un termosifone.
L’ingresso della casa di una mia amica; chiacchieriamo e io
sono spalmata sul termosifone.
La poltroncina della mia camera a Londra, saggiamente
posizionata accanto al termosifone. Seduta lì studio, bevo il tè, faccio
telefonate, videochiamate, guardo film. Tutto rigorosamente accanto a quelle
ondate di calore. (La mia amica Geat e io correvamo puntualmente ad accendere
il riscaldamento che i nostri coinquilini inglesi spegnevano. Una di loro aveva
dichiarato, davanti alle nostre facce incredule: “A me piace avere freddo in
casa”).
Il termosifone ad una festa di compleanno. A varie feste di
compleanno. Il termosifone è un’isola felice nelle feste, assolve a una duplice
funzione: fornisce un luogo caldo, molto utile quando si hanno vestiti eleganti
(e, quindi, non abbastanza pesanti) e offre una posizione da occupare alla
festa. Si può stare in disparte perché, in realtà, si sta in disparte per stare
accanto al termosifone.
Il termosifone nella mia camera a casa dei miei genitori.
Questo termosifone celeste chiaro porta su di sé ore e ore
di ricordi. E porta anche un legame con il blackout.
Faccio il terzo o il quarto anno di liceo, credo. Ho la schiena
poggiata contro i tubi caldi, sto provando a studiare storia ma non ci riesco, le
pagine sono tantissime e sono in ritardo sulla mia tabella di marcia perché ho perso tempo, che è una delle cose che mi fa più paura. Provo a
leggere ma nulla mi entra in testa. Piango. Mi dispero. Sono nel blackout.
Ancora adesso mi chiedo come arrivi questo blackout, come
avvenga il suo scatto iniziale. Provo a catturarlo e a scomporlo, in modo da evitarlo,
ma lui sembra sempre sfuggire alla mia analisi. Non lo riesco ad afferrare. È un
po’ come se qualcuno accendesse tutt’a un tratto un interruttore nella mia testa
e lei, in risposta, non riuscendo a contenere tutta quella scarica di energia, iniziasse
a buttarla fuori, incurante di tutto. Incurante degli altri, di cosa possono
pensare. Del tempo. Delle cose da fare. Di dove ci si trova.
L’energia esce fuori e travolge tutto senza fare distinzioni.
Quando è uscita, mi sento stanca. Mi riposo. Mi raggomitolo accanto al
termosifone, che diventa un rifugio: è un posto in cui sentirmi protetta, circondata
dal caldo. Ho come l’impressione che il caldo rallenti i pensieri e riempia la
testa.
Ho passato tante ore accanto a quel termosifone celeste. La luce
fuori cambiava e quella gialla della mia camera sembrava diventare sempre più
forte mentre io restavo lì, con un libro da leggere o da studiare poggiato sul
termosifone. Se dovevo ripetere qualcosa, lo facevo sempre da lì. Se parlavo al
telefono, mi mettevo sempre lì. Ho anche provato a scrivere stando lì, ma era
scomodissimo.
Stavo quasi sempre in piedi, in modo da assorbire per bene
tutto il calore, imprimerlo sulla pelle. Quando ero costretta a staccarmi, le
mie cosce avevano delle lunghe chiazze rosse.
Il termosifone della camera della casa nuova è più basso e,
quindi, non si presta a questo uso. Inoltre, la casa nuova diventa subito molto
calda, e ho paura che stare accanto al termosifone bollente sia eccessivo. Però,
di tanto in tanto, osservo i termosifoni. Ci poggio i vestiti. Ci poggio gli
asciugamani umidi.
Ma, soprattutto, mi interrogo incessantemente su quanto
tempo tenerli accesi, perché le ore di calore disponibili sono tantissime e io
non riesco a scegliere quali selezionare.
Commenti
Posta un commento