La bicicletta (e la pioggia)

 


Volevo parlare d’altro ma poi sono stata sotto la pioggia in bicicletta e mi è sembrato giusto parlare della bicicletta.

Ieri mattina il cielo era grigio-nero e io avevo deciso di andare a correre. Quando decido una cosa è difficile poi che io riesca a non farla. E anche ieri mattina è stato così. Ho aspettato un po’ di tempo prima di andare, perché era troppo buio. Poi ho capito, però, che non sarebbe arrivata più luce e che, se avessi aspettato troppo, avrei anche preso la pioggia.

E così è stato. Verso la metà del giro solito che faccio aVilla Ada ho iniziato a sentire qualche goccia. “Magari non aumenta” ho pensato, ma sono stata contraddetta meno di cinque minuti dopo da uno scroscio fortissimo.

Ho avuto un breve momento di esitazione in cui ho pensato di tornare indietro, ma è stato molto breve e non è stato molto vero, perché io non so prendere decisioni veloci che comportino il cambiamento dei miei piani. Non so prendere alcun tipo di decisione, ma quelle legate ai cambi di programmi ben stabiliti e ben rodati come il mio giro di corsa a villa Ada sono proprio impossibili per me. Quindi ho ignorato questa possibilità di poter cambiare scelta.

Ho continuato a correre. “A me piace correre sotto la pioggia” mi sono detta. È vero, in effetti, se non fosse che i miei occhiali erano talmente appannati da non farmi vedere più nulla e che ad un certo punto, verso la fine, diversi lampi hanno squarciato il cielo e ho pensato che avrebbero colpito l’albero di villa Ada proprio accanto a me e, di conseguenza, me.

Per fortuna non è accaduto nulla di tutto ciò e me ne sono tornata zuppa sulla mia bicicletta. Quando vado in bici durante la pioggia spero sempre di ispirare profonda pietà negli automobilisti. Mi aspetto quasi che si fermino per farmi passare, che aprano il finestrino per comunicarmi il loro dispiacere per la mia situazione, che non passino al semaforo fino a che non sono passata io.

Al massimo qualcuno di tanto in tanto rallenta un po’, ma potrebbe anche essere un caso, o il traffico.

Ma c’è sempre qualche simpatico esemplare che mi passa accanto troppo velocemente, alza un mare d’acqua e mi inzuppa. Poi corre via e non posso neanche insultarlo per bene.

L’utilizzo della bicicletta in giro per Roma è costellato dai litigi con gli automobilisti.

Il nodo principale dei nostri litigi è la mia esistenza sulla strada. Il posto che io e la mia bicicletta ci permettiamo di usare disturba molto agli automobilisti. Uno spazio minuscolo, anche perché io ho sempre paura di dare fastidio e quindi mi posiziono sempre al lato della strada, così tanto a lato da rischiare, a volte, di andare contro gli specchietti delle automobili parcheggiate. Ma anche questo per molti automobilisti non è sufficiente.

Ora, io capisco bene lo stress di guidare a Roma (è uno dei motivi per i quali prendo la bici) ma questa ostinazione di volermi cancellare dalla strada la trovo un po’ esagerata. Se io mi trovo sul lato della strada e la macchina non riesce a superarmi, io non posso semplicemente diventare invisibile. In genere continuo ad andare avanti, ignara del loro clacson.

Dopo un po’, però, inizio a urlar loro contro. Ma so di essere più fastidiosa quando mi limito ad ignorarli, quindi perfezionerò questa tecnica.

Un altro grande problema della bicicletta è quando le marce si inceppano e la catena esce. La prima volta che è accaduto ero su una stradina in salita di San Lorenzo, ho chiamato A. che ha tentato di spiegarmi come fare. In solo mezz’ora ci sono riuscita. Nel tempo sono diventata in grado di rimetterla da sola. Ad eccezione di due settimane fa, quando, nel traffico di piazza Vescovio, un simpatico cinquantenne in piedi fuori dalla sua macchina, vedendo che pedalavo con la catena staccata (pedalare in un certo modo è il metodo che mi ha insegnato A. per farla rientrare) ha iniziato a volermi impartire una lezione su come stessi sbagliando tutto e dovessi scendere dalla bici, probabilmente come mi avrebbe impartito una lezione su qualunque altro argomento, essendo lui un uomo cinquantenne e io una donna molto più giovane.

Mi sono innervosita talmente tanto che la catena non è rientrata.

Ieri mattina, tornando a casa, ho cercato di cambiare meno marce possibili per evitare il disastro di ritrovarmi sotto la pioggia e dover far rientrare la catena mentre ero sotto l’acqua. 

È stato un po’ faticoso, anche perché ho tenuto per tutto il tempo la mano destra sulla tasca del pile in cui avevo infilato il telefono per cercare di tenerlo asciutto. È triste dirlo, ma questa è stata la mia principale preoccupazione. “È un cellulare sostenibile, e quindi costoso” mi sono detta. “Se si rompe come faccio? Se si rompe ne devo comprare un altro. Un altro costa tanto. Comprarne un altro dopo così poco tempo non è un comportamento sostenibile.” 

Poi, però, mentre cercavo di non prendere troppo vento, ho pensato: “Se si rompe io non lo ricompro.” Questo pensiero mi dato uno slancio. “Se si rompe questo telefono io colgo l’occasione per stare senza. Lo dico sempre ma poi non lo faccio mai. Ecco, questa sarebbe l’occasione giusta. Resto senza telefono. Faccio questo gesto rivoluzionario. Un gesto difficile, ma necessario. Un gesto che le persone intorno a me troveranno difficile da capire e scomodo, ma che, a poco a poco, darà i suoi frutti. Potrebbero anche seguirmi in questa impresa.”

Sono tornata a casa, mi sono spogliata, ho messo su il porridge e sono andata a fare la doccia. Il cellulare era del tutto asciutto. Ho tirato un sospiro di sollievo.  


Photo by Greg Boll on Unsplash

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