Il caffè (e le sue tazzine)

 



Dopo pranzo accade un evento meraviglioso: prendo il caffè. A volte avviene subito dopo; altre volte, se ho tempo, aspetto una mezz’ora. In questo tempo faccio altre cose, in genere noiose, con il pensiero che, dopo poco, prenderò il caffè.

Lo verso nella tazzina, poggio sul piattino un pezzetto di cioccolata e delle mandorle, decido se metterci lo zucchero o il latte di mandorla (ma questo devo averlo stabilito prima, perché comporta la scelta di una tazza più grande) e, negli scenari migliori, mi siedo con un libro per un po’. In quelli peggiori ingurgito il caffè bollente cercando di non bruciarmi, mentre controllo l’orologio per non fare tardi.

A me, in realtà, il caffè non fa neanche impazzire. Fino a una decina di anni fa mi faceva proprio schifo. Durante lo studio per la maturità avevo provato a berlo una volta per disperazione, perché ero stanchissima. Mi era venuto un conato di vomito e l’avevo sputato.

Per tutto il liceo ho osservato i gesti della mia amica Francesca che, dopo pranzo, quando veniva a casa mia, metteva su il caffè. Io le consegnavo la macchinetta, perché non avevo idea di come si facesse il caffè. Poi le facevo compagnia mentre lo beveva, senza avere alcun desiderio di assaggiarlo.

Il caffè era una bevanda amara e dolciastra insieme (perché, nel tentativo di renderlo migliore, lo riempivo di zucchero).

Poi, ad un certo punto, qualcosa è cambiato. Non ricordo il momento del primo caffè bevibile, probabilmente non l’ho considerato un traguardo importante. Non so perché avessi riprovato, forse in un giorno di estrema stanchezza qualcuno mi ha detto: “Perché non prendi un caffè?” Quel qualcuno deve anche avermi consigliato di non metterci troppo zucchero, forse.

Ho iniziato a berlo. A dire di sì a tutte le possibili variazioni sul tema dell’invito a prendere un caffè: “Lo vuoi un caffè?”; “Lo prendi un caffè?”; “Posso offrirti un caffè?”; “Ti va un caffè?”; “Ho fatto un caffè, lo vuoi?”

Ma sempre senza esagerare, perché mi sembrava una bevanda scura e potente. Per un periodo mi sono imposta di trovare dei giorni senza caffè, dei giorni di pausa, ma poi ho capito che in quei giorni ero tristissima, come se stessi chiedendo a me stessa di rinunciare a qualcosa di fantastico. E allora solo uno, dopo pranzo.

Anche perché, appunto, non mi fa poi così impazzire il suo sapore. La mattina bevo sempre il tè, tazze e tazze calde che riempio in continuazione. Il caffè è troppo breve, finisce subito.

Dopo pranzo, invece, lo osservo mentre esce dalla macchinetta, oppure mentre si riscalda nel pentolino, se A. lo ha già fatto. Pregusto il momento, come se fosse una sorta di spartiacque nella mia giornata, una bevanda magica che ha il potere di trasportarmi dalla mattina al pomeriggio.

Tanto grande è il suo potere, che l’ho ricercato con disperazione anche a Londra, inseguendo profumi buonissimi che si trasformavano in caffè schifosi.

Ma io, imperterrita, continuavo a sperare che quel liquido nero con la schiuma, oltre che caldo e bello, fosse anche buono. Se ero tanto stanca e il liquido era passabile, mi adeguavo. Sennò, lo sputavo.

E continuavo a guardare le tazzine in cui mi veniva servito.

Uno dei grandi motivi della mia passione per il caffè, infatti, sono le tazzine. Non riesco a spiegare questa mia incredibile passione. Il caffè è legato indissolubilmente alle tazzine, così come è legato al momento in cui viene bevuto.

Il caffè bevuto di fretta, infatti, non mi piace tanto. Prende tutto il cattivo contenuto in fondo al suo sapore e butta fuori tutto il buono.

Il caffè, invece, è tante altre cose. È la cucina di una mia amica, che lo versa nelle sue tazze rosa antico. Io la guardo prepararlo e intanto osservo le tazze vuote. Sono i tavolini del bar in cui mi siedo con un’altra mia amica. Prendiamo sempre solo il caffè e poi restiamo lì a chiacchierare. È la mia coinquilina che, a Londra, trova un caffè buonissimo e lo porta a casa.

Il caffè è composto dalle cose che ha intorno. Soprattutto le tazzine. Come il tè, d’altra parte.

Una domenica di qualche settimana fa, A. e io siamo andati a trovare sua nonna. Le abbiamo portato un dolce vegano e una tisana al cioccolato. Sua nonna ha proposto di usare un servizio di tazze e piattini inglesi del 1858 (la data è scritta, minuscola, sul retro di piattini e delle tazzine).

Io non ho più pensato al dolce, alla tisana, al miele per la tisana. Ho pensato solo all’idea di bere in quelle tazze. Mi sono ritrovata in una drawing room di una casa inglese. È la seconda metà dell’Ottocento, indosso un vestito lungo e scarpe scomode, sono nella mia casetta a due piani, a Londra. Fuori, la strada è tranquilla, il cielo è pieno di nuvole grigie. Io sorseggio il mio tè con eleganza, attenta a non sporcare il vestito. Sono seduta dritta su una poltroncina. Gli invitati chiacchierano, io non li ascolto troppo. Fuori, le nuvole minacciano pioggia. 

Quando siamo usciti, aveva iniziato a piovere davvero. Mentre camminavamo per tornare a casa, mi hanno anche iniziato a far male i piedi per le scarpe scomode.

 

Photo by David Tip on Unsplash

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