La pioggia
A Londra abitavo con una mia amica israeliana che frequentava
il mio stesso corso e che, un giorno, in una delle nostre frequenti conversazioni
sulla bruttezza del tempo di Londra, aveva detto: “Quando abitavo a Tel Aviv i
giorni in cui pioveva mi davo malata e non andavo al lavoro. Tanto accadeva tre
volte l’anno al massimo.”
Non ha potuto servirsi di questa stessa strategia a Londra.
A Londra, Geat e io passavamo molto tempo a guardare il
cielo, sconcertate. Io ero più preparata di lei ma continuavo sempre a
svegliarmi con un filo di speranza, immaginando di scorgere dalla mia finestra,
se non proprio un cielo azzurro, un cielo celeste, anche chiaro. Invece vedevo
soltanto diverse sfumature sulle gradazioni del bianco e del grigio.
Anche quando si aveva l’illusione di un po’ di bel tempo, bisognava
prepararsi ad essere delusi, come il giorno in cui, contente e soddisfatte,
Geat e io avevamo constatato che era senza dubbio una giornata di sole di
inizio ottobre. Eravamo andate all’università vestite leggere, contente. E avevamo
passato la pausa pranzo nel reparto vestiti dell’enorme supermercato vicino all’università,
comprando calzamaglie e ombrelli, perché durante la mattina la temperatura si
era abbassata drasticamente ed aveva iniziato a piovere.
Ma noi non demordevamo e, appena ci accorgevamo di uno
spicchio di sole, correvamo al parco.
Da parte loro, gli inglesi parevano ignari della bruttezzadel tempo che era toccato loro in sorte. Pochi giorni dopo il mio arrivo, in un
tardo pomeriggio pieno di pioggia e vento, ricordo un inglese che, sentendo che
ero italiana, mi aveva timidamente chiesto: “In Italia il tempo è più bello,
vero?”. Io, da sotto l’ombrello, avevo annuito. Non troppo, per non farlo
rimanere troppo male. Lui allora mi aveva detto: “Mi sa che noi inglesi non
pensiamo che il nostro tempo faccia schifo fino a quando non andiamo in vacanza
in un altro Paese. Lì ci rendiamo conto che il nostro è proprio brutto”. Mi sa
che a quel punto avevo cercato di consolarlo un po’, perché mi era parsa un’affermazione
davvero triste, anche se molto vera.
Dopo un po’ di settimane, Geat e io abbiamo fatto quello che
fanno tutti coloro che si trasferiscono a Londra: ci siamo rassegnate a non
vedere quasi mai il sole. Scorgevamo il bianco, poi il grigio, poi il buio. E
poi, di tanto in tanto, il sole riusciva a farsi largo tra le nuvole. E allora
era bellissimo, tutti i soliti posti apparivano diversi e tutto quello che si faceva
andava interrotto per correre fuori al sole.
In fondo, era anche bello non dare il sole per scontato,
pensavo quando c’era il sole.
E poi, a poco a poco, ho iniziato a intravedere il fascino
dei gironi di cielo bianco.
Un giorno ne parlavo con mia madre e lei mi aveva spiazzato
dichiarando che il cielo che lei preferiva in assoluto è quello bianco grigio, perché
le ricorda quello della sua infanzia (tra Parigi e Bruxelles).
Io ero inorridita. Le avevo detto che secondo me non era
possibile. Forse se lo ricordava male, quel cielo, forse lo diceva soltanto
così, per un’idea romantica di quel cielo, non per il cielo stesso, ma per
come, nella sua memoria, era diventato quel cielo. Ma lei aveva detto che no, a
lei piaceva proprio quel cielo.
Qualche anno dopo anche una mia amica mi ha detto che il cielo
bianco è il suo preferito perché “i colori sembrano più vividi”.
Allora ho iniziato a pensare che forse poteva esserci
qualche segreto nascosto dietro a quel cielo bianco, qualcosa che non riuscivo
a vedere.
Ho provato a dargli un’altra possibilità.
Ho scoperto, per prima cosa, la rilassatezza del cielo bianco
grigio, la sua mancanza di pretese. Non ti chiede di essere felice, anzi, ti
offre una scusa se non ti senti proprio al meglio. Se sono un po’ malinconica
in una giornata di cielo grigio posso rimanere con il dubbio che derivi solo dal
cielo. Se è una giornata di sole splendente allora sarò triste per qualche altro
motivo.
E quando vedo il cielo di quel colore mi affretto ad andare
a casa e sono contenta di restarci dentro. Mi piace guardarlo fuori dalla finestra.
Poi, a volte, con il cielo grigio arriva anche la pioggia.
Vari anni fa, ospite di alcuni miei amici inglesi, avevo
chiesto se mi potessero prestare un ombrello. Loro mi avevano osservato stupita
e mi avevano risposto che loro, l’ombrello, non ce l’avevano. Loro uscivano e
si bagnavano.
Uscire senza ombrello e bagnarsi è forse la caratteristica
che apprezzo di più degli inglesi. Ho iniziato a fare così anche io, aiutata
dal fatto che, spesso, l’ombrello lo scordo a casa.
Ma è impossibile con gli acquazzoni. Che, sempre secondo lo
stesso amico inglese, sono più frequenti a Roma che a Londra. Un giorno ci eravamo
messi a fare una ricerca su Google e avevamo confrontato i millimetri di
pioggia che cadevano a novembre a Roma e a Londra, e la prima aveva vinto.
Gli inglesi hanno quella leggera pioggerellina con la quale
si può evitare l’ombrello. Con la quale possono continuare a fare le cose come
sempre, senza prenderla in considerazione e modificare tutti i loro piani
(anche perché, altrimenti, non farebbero più nulla). Però a me piace anche
quando la pioggia diventa acquazzone e non può essere ignorata.
È vero, modifica le cose. È vero, a me non piacciono i cambi
di programma. Però, da un certo punto di vista, è anche rassicurante: è lei che
ha deciso, non siamo stati noi. La pioggia ha detto chiaramente che qualcosa
quel giorno non si può fare. E non l’ha fatto con due leggere goccioline, ma
con forti scrosci d’acqua, magari accompagnati da lampi e tuoni. È stata chiara.
Non si può fare altro se non correre a casa.
Quando penso a questo rivedo un’immagine precisa di un
giorno di autunno in cui faccio le elementari. Non ricordo esattamente quanti
anni ho, né se fosse un giorno particolare, ma non credo. Ma mi rivedo mentre
corro con mia sorella e la nostra baby-sitter, siamo appena uscite da scuola e
stiamo correndo a casa perché la pioggia sta aumentando, attente a non
scivolare sulle foglie bagnate. Mi sa che non abbiamo l’ombrello e ci ripariamo
con gli zaini e le giacche. Una volta arrivate a casa togliamo i vestiti bagnati,
asciughiamo i capelli, infiliamo dei vestiti asciutti.
Forse non ricordo neanche un giorno preciso ma tanti pezzi
di momenti di pioggia diversi, in cui corriamo per ripararci e poi ci rintaniamo
in casa.
E tutti sembrano avere lo stesso colore, lo stesso odore. In
tutti c’è la luce accesa anche se è ancora presto, ed è strano vederla così
gialla contro il buio che c’è fuori. In tutti c’è uno strano vuoto intorno, c’è
il caldo dei vestiti asciutti, c’è un’atmosfera strana che sposta appena le
cose e che io non riesco bene a capire.
Se apro la finestra, c’è odore di bagnato. Lo annuso e resto
in quella luce strana, e per un attimo mi sento in un mondo nuovo.
Photo by Rhendi Rukmana on Unsplash
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