Il panico e gli altri
Quando ero piccola a me piaceva stare con gli altri. Mi
piaceva anche stare da sola. Quando ero bambina non sentivo una sostanziale
differenza tra lo stare con gli altri e lo stare da sola. Era diverso,
ovviamente, ma io non mi sentivo diversa. Lo spazio che avevo intorno non si
ingrandiva e non rimpiccioliva in un caso o nell’altro.
Poi, ad un certo punto, stare con gli altri non mi è
piaciuto più. O, forse, non è che non mi sia piaciuto più in assoluto, ma stare
da sola era più bello. Potevo fare più cose e non dovevo poi spiegarle agli
altri.
Qualche settimana fa ho parlato dello squillo del telefono l’estate.
Tra l’altro, pensando allo squillo del telefono che
echeggiava per la casa, mi è venuta la nostalgia del telefono fisso, che non
diceva chi era fino a che non si rispondeva. Dovevi per forza alzare la
cornetta e dire: “Pronto”, non potevi far finta di niente e scegliere di non
rispondere. A me piaceva tanto il telefono fisso, anche perché mi sembra che a
furia di mandare messaggi per organizzarsi su luoghi, orari, cambi di luoghi,
cambi di orari, si perda solo più tempo e si dimentichino pezzi di informazioni.
Ho pensato di non mandare più messaggi e fare solo telefonate da adesso in poi,
solo che ho avuto paura che gli altri mi potessero odiare. Poi ho cambiato idea
e ho deciso che, anche se mi avessero odiato, sarebbe stato per un motivo
legittimo. Solo che poi me lo sono dimenticata, perché non ci sono abituata, e ho
continuato a inviare svariati messaggi in cui mi contraddicevo, dando orari e
luoghi diversi. Ho deciso che alla casa nuova voglio mettere un telefono fisso,
così il mio cellulare può essere spento tutto il tempo senza che mia madre e le
altre persone che mi conoscono (ma principalmente mia madre) pensino che io sia
morta.
Quindi, rispondevo al telefono. Arrivavo trepidante quando
ero bambina, immaginando quale proposta si potesse nascondere dall’altra parte
della cornetta; tremante quando ero cresciuta e speravo che non fosse qualcuno
per me. Però bisognava rispondere, perché non si sapeva. Se davvero non volevo
sentire nessuno e non ero sola in casa facevo dire che non c’ero, ma era una cosa
molto difficile perché io odio le bugie. Ma a volte mi facevo forza e le
dicevo, pur di rimanere da sola.
Ho riletto la frase scritta qui sopra e ho notato che l’avevo
scritta al contrario: “pur di non rimanere da sola”, avevo scritto. Perché,
in effetti, ad un certo punto, quando il liceo era finito, l’università era
finita, tutto era finito e niente sembrava essere iniziato, per un piccolo
periodo le cose sono andate al contrario e io non volevo mai rimanere da sola. Non
volevo ascoltare la mia testa e non volevo riflettere su cosa fosse più giusto
fare. Non volevo realizzare che non sapevo cosa fare e che avrei dovuto trovarlo.
Non volevo pensare a come volessi agire, ma preferivo chiedere a qualcuno come
era meglio che io agissi. Quindi facevo solo cose che implicassero gli altri. In
questi giorni, di tanto in tanto, mi capita di ricordare alcuni di questi
momenti e mi domando: “Ma che altro facevo?”. Rivedo tavolini di tante cucine
diverse, tazzine di caffè, passeggiate, viaggi in metro. Non sono ricordi
brutti, ma sono strani, perché non riesco a ricordare che altro facessi quando
mi ritrovavo sola. Forse quello che facevo appena mi ritrovavo da sola era
cercare un altro modo per non stare da sola.
È un momento che poi è finito ma che, forse, mi ha lasciato
un po’ meno paura degli altri.
Non so perché mi facessero così paura gli altri. Forse non erano
gli altri a farmi paura, ma l’idea di non poter stare per conto mio. Come se ci
fossero due ritmi diversi che scorrono paralleli, uno per quando sono da sola e
uno per quando sono con gli altri. E nel ritmo con gli altri è più facile
perdersi, sbagliare il tempo, battere con i piedi sbagliati, inciampare. Nel
ritmo con gli altri c’è anche bisogno di spiegare quello che si fa, non si può
fare e basta.
I due ritmi devono essere distanti e ben definiti. Quando si
intrecciano troppo, io mi confondo. Se devo condividere tanto tempo e tanto
spazio con altre persone che non conosco bene, la mia testa inizia incessantemente
a fare domande su cosa si aspettano gli altri, su cosa voglio io, su quale potrebbe
essere il compromesso migliore.
Oppure, a volte mi dimentico di questi ritmi diversi e dico “sì”
a tutti quelli che mi dicono di fare qualcosa, se capita che io sia abbastanza
libera in quei giorni. E poi, tra un sì e l’altro, passando da una cosa all’altra,
noto che mi tremano le mani, che non respiro tanto bene e che non riesco più a
sentire la mia testa. La sento tutta insieme, quando mi ritrovo sola, urla per
essere stata in silenzio per troppo tempo.
Prima non capivo perché facesse così. Adesso mi dico: “Ah, è
perché sono stata troppo con gli altri” e allora mi riprometto di starci a dosi
gestibili. O di starci per tanto, ma poi di stare tanto da sola. Ci sono
diverse soluzioni e non sempre funzionano le stesse cose; a volte non mi accorgo
neanche di trascorrere tanto tempo con qualcuno, altre volte me ne accorgo
subito. Ma capisco quando non va bene perché la mia testa me lo dice urlando; anche
se, forse, sarebbe meglio capirlo prima.
Per ora mi limito ad ascoltarla e a registrarlo come se fosse
una caviglia che fa male o un piede dolorante, che non riesce a fare molte
cose. Mi piace trattare la mia testa come un piede, mi sembra più semplice.
Photo by Carson Arias on Unsplash
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