I bisogni del panico (e il caldo)

 


A volte ci sono dei segnali per riconoscere il panico:

1-     Mi viene da piangere. Magari non piango, ma mi accorgo che il pianto è vicino; è lì, dietro agli occhi e in cima alla gola, basterà pochissimo per farlo uscire fuori. Basterà qualcuno che mi rivolge una brutta parola; basterà un piccolo imprevisto; basterà un piccolo errore.

2-     Sento un peso nel petto. Non so se è la conseguenza del pianto che arriva. Sono collegati, credo, c’è tutta una zona tra il petto e la gola che diventa improvvisamente pesantissima.

3-     Mi trema la voce e inizio ad avere un modo di parlare diverso, A. mi chiede: “Che cosa è questa voce?” ma a me esce solo quella. (E, se me lo dice in un modo che non reputo carino, questa domanda è sufficiente per far accadere il punto 1.)

4-     La maggior parte delle cose che mi vengono dette non mi sembrano carine, ma minacciose e antipatiche.

5-     Posso fare qualunque tipo di cosa, ma nessuna andrà bene. Posso fare merenda, sarà una brutta merenda. Posso uscire fuori, ma sarà stato meglio rimanere dentro. Posso parlare con qualcuno, ma dirò le cose sbagliate nel modo più sbagliato.

6-     La mia testa corre velocissima e il mio corpo è bloccato.

7-     La mia mano inizia a scrivere tantissime cose da fare sull’agenda. Alcune per oggi, altre per domani, altre per giorni più lontani.

8-     La mia testa va sempre più veloce, fa programmi lunghissimi ed intreccia le diverse variabili. Il corpo inizia ad accartocciarsi su di sé. È bloccato ma vorrebbe muoversi oppure fermarsi davvero; invece non riesce a fare nessuna delle due cose e quindi adotta una posa a metà, intrecciata, rigida e scomoda.

Negli ultimi giorni tutti questi segnali hanno iniziato a moltiplicarsi, a mescolarsi tra loro e ad immobilizzarmi. Ho iniziato a percepire la testa sempre piena. Ho visto la mia attenzione andare via in tutta fretta.

È perché ho cercato di adattarmi a tante cose diverse e impreviste. Perché mi sono sentita sempre in bilico tra posti diversi. Perché ho cercato di fare tante cose, alcune delle quali difficili per me, e non ho fatto quelle che avrei voluto fare.

È tutto vero. È anche vero che fa molto caldo.

Forse non ha molto senso cercare una soluzione fuori per spiegare a sé stessi come si sta, andrebbe trovato dentro. È vero. Però fa anche molto caldo. E allora la notte non riesco a dormire, a volte. Io non ho particolariproblemi con il non dormire ma ne ho con il non dormire perché mi ritrovo in un bagno di sudore e mi sembra di non respirare. O perché faccio la lotta con una zanzara.

Il peso nel petto non arriva per il caldo, ma il caldo mi fa sentire anche il resto del mio corpo come un peso.

Il desiderio di muovermi o fermarmi non viene dal caldo, ma se mi muovo con il caldo mi sento male (spesso lo faccio lo stesso, e mi sento male; quindi, a quel punto, mi viene l’ansia pensando che mi sentirò troppo male) oppure, se mi voglio muovere e fa caldo lo devo fare solo in alcuni (brevi) momenti. Persi quelli, è finita. Anche stare ferma non è comodo con il caldo. Per me stare ferma non è mai comodo. Non è mai comodo con il freddo, perché io ne ho sempre troppo. Ma non è neanche comodo quando si sta bene, perché il mio corpo non vuole stare fermo: quando sono sdraiata muovo i piedi o le braccia, come se tremassi; quando sono seduta sbatto un piede su e giù oppure apro e chiudo le gambe. Da un po’ di giorni avviene sempre: appena mi siedo, noto che muovo le gambe freneticamente.  

Di tanto in tanto, però, accade una cosa bella: sono troppo stanca. Il caldo amplifica ancora di più la stanchezza e diventa difficile ignorarla.

La stanchezza mi ricorda che la mia mente si trova dentro un corpo e che, a volte, questo corpo si sente stanco. Ma non solo. Anche la mia mente è una parte del mio corpo e, a volte, la mia mente si sente stanca, ha bisogno di una pausa. Io ho cercato di dirle negli anni che questo non è vero, che le pause sono stupide, che la stanchezza non esiste, ma non ha funzionato molto bene.

Tante volte mi arrabbio per non riuscire a “fare di più”, in tutti i sensi: per non fare di più per gli altri, per non fare di più per il pianeta, per non fare di più per la scrittura, per non fare di più per il lavoro, per non fare di più per lo studio. Perché non posso alzarmi la mattina e fare solo di più? Aiutare tutti. Fare ogni azione possibile per il pianeta. Scrivere tutto il giorno. Scrivere subito tutto quello che voglio scrivere.

Solo che quando pensavo a fare di più facevo sempre di meno. Perché, a volte, era come se, nel processo, rompessi qualche pezzetto. E allora mi dicevo: “Vedi, non potevi fare di più, ti sei anche un po’ rotta, che altro pretendi?” e mi sentivo a posto con la coscienza perché non fare tutto non dipendeva da me, dipendeva dal fatto che mi ero rotta, non c’era nulla da fare.

Adesso sto provando a concentrarmi sul non rompermi. Primo, perché non è molto carino. Secondo, perché ho visto che è un trucchetto per non stare male con il mio senso di colpa.

Terzo, perché provo ad ascoltare la stanchezza. È più facile ascoltare quella del mio corpo, meno quella della mia mente. Quella ancora cerca di dirmi: “Puoi farlo, puoi fare di più, puoi fare ancora”.

Allora io provo a dire: “No, mente, mi sa che questa cosa è troppo” e poi combatto con la sua risposta che mi dice che, se non faccio tutto tutto tutto, è come se io non facessi niente. “No, se non faccio tutto tutto è come se non mi rompessi.”

Allora a volte prendo un po’ di coraggio e dico: “Questo no”. Aspetto che qualcosa crolli. Non crolla. Aspetto di sentirmi angosciata perché non sta crollando.

Poi mi stanco e bevo un tè freddo e vedo che era anche colpa del caldo.


Photo by Kent Pilcher on Unsplash

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