Essere gentili con il panico

 


L’altro ieri mattina mi sono svegliata alle 5.30 e ho iniziato a seguire A. per la casa. Lui mi ha chiesto: “Perché mi segui?” e io ho detto che non lo sapevo. Ma non era del tutto vero. O, almeno, sospetto che ci fosse un motivo. Appena avevo aperto gli occhi e avevo visto la luce fuori dalle persiane, A. mi aveva detto: “Se vuoi andare a correre ti conviene andare adesso, è ora.” Solo che io avevo deciso di andare a correre soltanto i giorni pari, non quelli dispari, perché in quelli dispari devo dare ripetizioni e allora la mattina ho meno tempo. Solo che A. non se lo ricordava, anche perché non è un particolare molto interessante da ricordare, e ha fatto quel semplice ed innocuo commento sulla mia corsa.

Quel semplice ed innocuo commento ha innescato una serie di reazioni a catena nella mia testa e il panico è partito più velocemente che poteva. “Forse aveva ragione, posso andare a correre”; “In effetti è davvero molto presto, è bene approfittare dell’orario e andare”; “Riuscirò comunque a fare le cose con calma prima della lezione, è tra moltissime ore”; “Però il telefono è quasi scarico, e quando corro da sola me lo porto sempre appresso”; “Se passa troppo tempo non sarà più così presto e non avrà senso andare”; “Avrebbe senso però riposarsi e restare ferma sul mio piano”; “Avrebbe anche senso andare, perché non uscirò mai di casa oggi” (questo in realtà non è stato vero, perché mi sono ricordata che dovevo andare al Negozio Leggero. Da una settimana mi scordo sempre qualcosa e ci vado ogni giorno, con grande divertimento del tipo del negozio, che mi prende in giro. Sono giunta a pensare che dimentico qualcosa apposta per poter uscire anche se poi, quando esco, vorrei solo tornare a casa perché fa troppo caldo).

Tutti questi pensieri si sono succeduti a ritmo frenetico per circa un minuto. Intanto seguivo A. per la casa. Poi A. si è rimesso a dormire. Io gli ho chiesto un aiuto per decidere. Appena ho aperto la bocca per chiederglielo ho capito che era la cosa sbagliata. A. mi ha detto che non riusciva più a dormire e si è alzato dal letto, arrabbiato. Io ho iniziato a sentirmi in colpa. Il mio panico è partito in tutto il suo splendore. La mia testa è diventata totalmente vuota e poi, subito, totalmente piena di commenti cattivi su di me e sulla mia incapacità.

Ad un certo punto, dopo pochi minuti, sono stata capace di riprenderla per i capelli per qualche attimo.

A. ha fatto colazione e io ho fatto yoga. Poi A. si è messo a riposare e io ho fatto colazione. Ho letto il mio libro di questo periodo per la colazione, Love Letters di Virginia Woolf e Vita Sackwille-West. Virginia Woolf aveva appena comprato una “oil stove” e aveva deciso che “I have only one passion in life – cooking. […] I can cook anything. I am free forever of cooks. I cooked veal cutlets and cake today. I assure you it is better than writing these more than idiotic books.” La mia colazione è diventata ancora più lenta del solito per poter leggere più lettere possibili.

Poi A. si è preparato per uscire con una faccia stanca e abbattuta e il mio senso di colpa è ricominciato. Ho pensato che il giorno prima era stato molto stanco, che non si sarebbe mai riposato in tutta la giornata, che era tutta colpa mia. Appena è uscito, ho iniziato a sentirmi stanchissima anche io. Ho pensato che non mi sarei mai riposata, che era tutta colpa mia. Che avrei dovuto dormire di più, che era tutta colpa mia. Che sono incapace di riposarmi, che l’estate è un momento per riposarsi e io sto fallendo miseramente, perché non lo so fare. Ho iniziato a scrivere su dei foglietti degli utili promemoria per me, come “riposati” e “mangia bene” e ho scritto un bigliettino di scuse ad A. a forma di barchetta, ma dato che era a forma di barchetta lui ovviamente non ha capito che andasse anche letto e ha lasciato la barchetta così come era.

Poi ho iniziato a fare un po’ di cose con un simpatico sottofondo della mia testa che mi ripeteva la mia inettitudine o si sforzava di trovare mille modi per riparare a questa mia inettitudine.

Il giorno prima, mentre tornavo dalla corsa, avevo ascoltato come sempre un video di Fairyland Cottage. Quel giorno provava a fare una torta di trifogli ma falliva miseramente. Quindi il video non era sulla torta di trifogli (di cui, comunque, c’era la ricetta) ma sull’importanza del processo, e sul non darsi addosso quando si sbaglia, perché è facile essere gentili con sé stessi quando va tutto bene, mentre non lo è quando si ha una giornata difficile. Io ho pensato che certo, era vero, ma io ci sarei riuscita di sicuro ad essere gentile con me nelle giornate no, non ci vuole molto. A volte ho degli inaspettati balzi di ottimismo.

Quindi l’altro ieri ho deciso che era il giorno giusto per provare. Ho subito constatato che non è poi così facile, perché la mia testa vuole soltanto ripetere fino allo sfinimento tutto ciò che io faccio male e a quanto pare non è mai a corto di materiale (e, se lo finisce, ricomincia da capo).
Ho quindi deciso che cambiare la mia testa e le sue abitudini fosse qualcosa di troppo difficile, quindi mi sono concentrata unicamente su delle cose pratiche. Bere del tè freddo, farne di nuovo, sdraiarmi sul divano, scrivere delle cose, finire un libro in cui accade una cosa tristissima e bere il caffè restando così, senza cacciare via la tristezza. Cucinare senza bruciare nulla.

E, soprattutto, non dire mai quella frase paurosa, “sarà una bellissima giornata”. Ho deciso che questo lo dico solo la sera, quando l’ho vissuta. Oppure non la dico proprio, che mi sembra molto meglio. Anche perché le giornate più belle sono sempre quelle brutte.


Photo by Andy Hutchinson on Unsplash

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