Il panico e la tragedia


L’altro giorno, di sera, A. è entrato in bagno, è rimasto lì per un po’ e io ho pensato: “Forse gli è successo qualcosa di grave.”

Sono stata per qualche secondo ad ascoltare i rumori della casa, dicendomi che quelli erano i rumori di un momento drammatico. Così, da un momento all’altro, la tragedia era arrivata dentro casa. Non me ne ero neanche accorta ed invece lei era lì.

Qualche minuto dopo A. è uscito con i fogli degli appunti sotto il braccio: si era rintanato in bagno per ripetere quello che stava studiando per un esame.

Un’ipotesi di gran lunga più probabile. Ma la tragedia, per qualche strano motivo, sembra sempre più plausibile. Appena abbasso la guardia, lei entra di soppiatto. Forse è solo che la tragedia attrae di più.

Quando andavo al liceo, la tragedia era il mio argomento preferito di letteratura greca. Quando studiavamo la tragedia, io leggevo tutte le pagine per il giorno dopo, anche quando ero appena stata interrogata, e quindi di sicuro non sarebbe toccato a me la volta successiva. Mi dicevo che lo facevo perché la professoressa mi faceva paura e non si sapeva mai che cosa avrebbe potuto decidere di fare. La verità è che lo facevo perché mi piaceva la tragedia.

Solo che quella che si intrufola nella mia testa non è così carina, ed è abbastanza fastidiosa.

La tragedia mi dice che le persone che non rispondono al telefono saranno probabilmente morte.

Questo l’ho ereditato da mia madre, che lo pensa sempre.

Qualche anno fa A. era a Malta per un seminario di tai chi e io ero a Roma. Era una normalissima sera e io gli avevo detto che lo avrei chiamato dopo dieci minuti. L’ho chiamato dopo undici minuti e lui non ha risposto. Ho richiamato un numero considerevole di volte. Come prima opzione, ho pensato di aver sbagliato qualcosa, anche se non riuscivo a capire cosa, esattamente. Ho pensato che lui si fosse arrabbiato con me, ma non riuscivo a trovare un motivo anche minimamente valido. Esaurita questa opzione, è arrivata la tragedia: era successo qualcosa di grave al seminario di tai chi, sicuramente.

Quando A. mi ha chiamato quasi un’ora dopo, io ero a casa disperata, erano le dieci e non avevo ancora cenato ed erano accorsi i miei genitori in soccorso.

A. aveva perso la cognizione del tempo mentre faceva tai chi e si era dimenticato di avere il telefono in modalità silenziosa.

Il giorno prima avevo visto che il suo volo risultava partito e arrivato, o partito e non arrivato, non ricordo, fatto sta che lui non mi aveva scritto un messaggio e io avevo decretato che fosse accaduta una tragedia.

Anche questo l’ho ereditato da mia madre. Se arrivo in un qualsiasi posto e mi dimentico di scriverle che sono arrivata, lei crede che io sia morta.

La tragedia mi dice che se A. tarda in bicicletta avrà fatto un incidente e sarà stata colpa mia perché io gli ho fatto perdere cinque minuti, e quindi se fosse uscito cinque minuti prima non si sarebbero verificate le stesse circostanze che hanno portato al fantomatico incidente, ma altre. E prima che uscisse abbiamo discusso, quindi vivrò per sempre con questo pensiero tragico da portarmi appresso.

Anche questo l’ho ereditato da mia madre.

Poi A. ritorna e io mi dimentico tutto.

La cosa che più mi stupisce è come la tragedia si inserisca in situazioni normalissime. Perché se qualcuno entra in bagno per un tempo un po’ più lungo del solito lei mi sussurra all’orecchio: “Si è ucciso”? Inizio anche a sentire nella testa la mia voce quando vengo intervistata, dopo la tragedia, quando fanno quelle domande orribili ai parenti delle vittime, e dico: “Sembrava essere felice, e invece...”

Allora penso di avere dei grossi problemi nascosti: altrimenti, perché la tragedia si intrufolerebbe con tale facilità?

Ma, più probabilmente basta guardare mia madre.

Lei fa le stesse cose, ma di più. E ne fa anche altre.

Ieri sera a cena siamo finiti a parlare di metodi tremendi per togliere tonsille e adenoidi. Mia madre aveva ricordato che un otorino voleva levare le tonsille a mia sorella quando era molto piccola, e lei non era più andata da quell’otorino. Non voleva che gliele togliessero. Perché, se la operavano, lei che cosa avrebbe fatto nel frattempo? Come sarebbe sopravvissuta lei all’operazione di mia sorella? 

Io mi sono ricordata di una sera in cui mi dondolava tantissimo un dente da latte e mia madre mi aveva impedito di andare a dormire senza averlo tolto per paura che soffocassi la notte.

Mio padre ha ricordato che mia madre ancora pretende che lui tagli il prosciutto a pezzetti piccoli, perché potrebbe strozzarsi.

Solo che poi A. ha raccontato di aver davvero rischiato di strozzarsi per ben due volte con il prosciutto. 

Mia madre lo ha guardato con gli occhi spalancati. Io anche.

A quanto pare A. non ha ancora capito bene come ci si comporta con la tragedia.

Il gioco della tragedia consiste nell’aspettarsi sempre il peggio, e nel pensare che accadrà. Nel pensarlo così tanto da ritenerlo vero. Ma non bisogna mai guardarlo troppo da vicino.

 

Photo by Roger Lipera on Unsplash

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