Comunicare




Se qualcuno non risponde al telefono io penso che sia morto. 

O che non voglia mai più parlare con me. O che abbia smarrito il telefono per sempre e quindi non potrà mai più richiamarmi, perché ovviamente non vive in un mondo in cui i contatti sono salvati da google e appaiono automaticamente sul telefono successivo.

Se non ho risposta al telefono la mia mente inventa mille scenari, uno peggiore dell’altro, in cui chi non mi ha risposto, di punto in bianco, senza alcuna soluzione di continuità, ha deciso che non vuole parlare con me. E non solo oggi, ma proprio nella sua vita. 

Negli squilli a vuoto del telefono io immagino una faccia che guarda arrabbiata lo schermo con il mio nome che appare e inveisce sopra. Che poi è un po’ brutto, se uno ci si sofferma a pensare, questa cosa che c’è il mio nome che appare, e quindi in un certo senso io, che viene totalmente ignorato senza che abbia la minima possibilità di farsi sentire.

Se poi non si tratta di una chiamata senza risposta ma della segreteria telefonica, allora è peggio. 
Cioè, da una parte è meglio, perché non vuol dire che qualcuno sta inveendo contro il mio nome o scegliendo di non parlarmi, il che è di sicuro positivo. Ma questo scenario positivo ed ottimista può in realtà portare ad altre ben più tetre e catastrofiche opzioni. 

La morte improvvisa o il subitaneo ricovero in ospedale sono alcune delle ipotesi.

Quando mi preoccupo per questa faccenda del telefono corro a guardare chi è appena sento il suono di un messaggio. È sempre mia madre: “Come va? Sei a casa? Che hai fatto?”. 

È mia madre che si vuole accertare che io sia viva. 

E ogni volta lo capisco di nuovo. 

Capisco che quel filo che non si spezzerà mai tra me e mia madre, ciò che ci tiene da sempre unite e continuerà a tenerci unite per sempre è l’ansia. 

Capisco che io con il telefono faccio come lei. Solo che su di lei mi sembra ridicolo, mentre su di me no, è una questione di vita o di morte. Lei scrive a me per sapere se sono viva, ovvio che sono viva. Io scrivo a persone che nella mia testa potrebbero chiaramente essere morte. 

Quando ero al liceo io e una mia amica, Diletta, confrontavamo l’ansia delle nostre madri. Era una bella gara.

Il punto più alto raggiunto da mia madre fu quando una sera, prima di cena, mentre salivo le scale di casa, aprì la porta, mi vide e urlò dentro casa, a mio padre (che faceva sempre il tranquillo della situazione mentre in realtà si lasciava coinvolgere): “Eccola, è qui!” seguito da: “Attacca, l’abbiamo trovata!”

Stava dicendo a mio padre di chiudere la telefonata, che mio padre aveva in quel momento con i carabinieri. 

Perché mi avevano dato per dispersa. 

Erano le otto di sera, mi si era scaricato il cellulare, come tutti i lunedì ero andata al corso di teatro e come spesso accadeva il lunedì ero rimasta anche a guardare la lezione dopo la mia, cosa che mi aveva fatto arrivare a casa non verso le sei e mezza ma alle otto. Quando avevo fatto notare tutti questi dettagli a mia madre lei aveva solo detto: “Ma io non li sapevo”.
Il punto più alto raggiunto dalla madre di Diletta era stato quando un sabato sera, non avendo notizie della sorella di Diletta, aveva iniziato a chiamare uno dopo l’altro gli ospedali di Roma, chiedendo se al pronto soccorso fosse arrivata una ragazza con le sue caratteristiche fisiche. Almeno poteva stare tranquilla che non fosse arrivata in ospedale, e che quindi stesse bene. 

Ho capito che la mia ansia in queste cose era senza speranza quando la mia reazione a questo racconto è stata: “E se non fosse arrivata al pronto soccorso perché era morta per la strada?”

Per guarirmi dalla mia paura della comunicazione ho deciso di temprarmi e mi sono imposta una cura anti cellulare. Ho iniziato a usarlo sempre meno. Ho iniziato a ricercare l’ebbrezza di tenerlo spento,  privandomi di alcune informazioni.

Ho scoperto che non è poi così male. La cosa che mi piace è creare uno spazio. Uno spazio in cui non mando messaggi alle persone per accertarmi che siano vive. 

Oppure, uno spazio in cui sono io quella con il telefono spento, e quindi quella che potrebbe potenzialmente essere morta. 

O anche, se riesco ad avventurarmi un po’ più in là, essere io quella che non risponde. Sentire la chiamata, guardare il nome che appare sullo schermo e lasciare squillare il telefono. Mi sento un po’ cattiva, ma allo stesso tempo mi piace. Il che mi fa sentire ancora più cattiva. 

Ho scoperto che così alle persone so cosa dire quando le incontro. So che dire perché ho anche fatto altro, senza ricevere e mandare continui aggiornamenti. Oppure non so che dire e allora sto zitta. E per me è un bel risultato riuscire a stare zitta.

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