Il panico e la perfezione
Quando abitavo a Londra, un paio di volte a settimana andavo
a scrivere in un caffè di fronte all’università. Ce ne erano due, uno dentro a
un teatro e uno dentro a una piscina. Nel primo una volta avevo preso un caffè così
cattivo da essere costretta a sputarlo nella tazzina, mentre nel secondo era
bevibile, quasi buono, in realtà, considerando gli standard dei caffè a Londra.
Era molto luminoso e io ero anche abbonata alla piscina, così quando finivo di
scrivere o prima di scrivere potevo andare a nuotare.
Già qui si presenta uno dei pensieri che mi accompagnavano
nell’arduo compito della scelta: era meglio scrivere prima di nuotare o nuotare
prima di scrivere? Ogni scelta aveva i suoi pro e i suoi contro. Ma, in qualche
modo, io sarei dovuta riuscire a trovare la scelta perfetta.
E di scelte perfette da fare ce ne erano molte.
La prima e la più importante, il tavolo a cui sedersi. Alcuni
erano accanto alle vetrate che si affacciavano sulla piscina, e io li avevo
decretati i miei preferiti, per via della vista. O, forse, dell’idea della
vista, dell’idea di guardare l’acqua da sopra. A furia di osservarla avevo
anche ambientato in una piscina un testo che stavo scrivendo per il corso. Se nessuno
dei tavoli accanto alla vetrata era libero ero costretta ad andare ad un altro
tavolo, magari sull’altro lato della sala, magari con un’altra forma, o,
addirittura, alle tavolate molto grandi che andavano condivise con gli altri avventori
del caffè. E allora sarebbe stata una tragedia. Non sarei mai riuscita a
scrivere. E non potevo neanche arrendermi e tornare a casa, perché ero arrivata
fino lì. A volte quel bar era frequentato da un nutrito gruppo di madri con
bambini molto piccoli, perché, lì accanto, c’era un parco giochi. E a volte i
bambini erano pochi, carini e lontani. Altre volte erano troppi, erano troppo
vicini e facevano troppo rumore.
Allora io mi ripetevo una serie di cose nella testa. Mi
dicevo che ero arrivata tardi, anche se magari era prima delle altre volte. Ma
era tardi rispetto alla folla che c’era quel giorno e che io, in qualche modo,
avrei dovuto prevedere. Come avevo perso i cinque minuti fatali che mi avevano
fatto perdere il mio tavolo preferito? Troppo tempo per la colazione. Troppo tempo
per scegliere cosa mettermi. Troppa poca prontezza di riflessi nel correre i
due piani di scale fino alla doccia in cima alla casa e rubarla ai coinquilini.
Mi dicevo che avevo sbagliato ad andare a nuotare prima di
scrivere, perché se fossi andata prima a scrivere e poi a nuotare ci sarebbe
stata di sicuro meno gente. Non so bene in base a cosa, in realtà; probabilmente
sulla base del fatto che la scelta che non avevo fatto era di sicuro la migliore.
A che ora ero venuta lì la volta precedente? E la volta ancora prima? Ero venuta
alla stessa ora, ma quello era un venerdì e non un mercoledì, come la settimana
prima, quindi evidentemente il venerdì quel bar era diverso, era più pieno. Quindi
non era una buona idea andarci di venerdì. Oppure il venerdì l’orario giusto
era un altro.
E allora cambiavo giorno, oppure orario, oppure giorno e
orario. Oppure non lo cambiavo, tornavo all’orario in cui avevo trovato il
tavolo libero, ma quella settimana invece era occupato, e c’era molta più
gente. I clienti del caffè non sembravano facili da controllare.
Invece di scrivere, iniziavo a fare liste di tutte le cose
che avrei dovuto migliorare. Cose che dovevo cambiare per cercare di
controllare il bar e le persone che lo popolavano. Poi, già che c’ero, iniziavo
a fare le liste di tutti i successivi giorni della settimana, cosa avrei potuto
fare per non renderli una disfatta come quello lì. Liste su liste ai margini
dei quaderni.
A Londra il mio panico per le liste aveva
raggiunto delle vette ancora inesplorate. Facevo liste di tutto. Di libri da leggere
e film da vedere. Di persone da chiamare e di quando chiamarle. Di cose da dire
quando le avrei sentite, in ordine di importanza. Di regali da portare quando
sarei tornata a casa e quando andare a comprarli. Liste della spesa. Queste
liste mi ossessionavano particolarmente. Mi ricordo che il mercoledì mattina c’era
un mercatino di fronte all’università. Io non avevo lezione il mercoledì, ma
spesso andavo a scrivere e a nuotare in piscina, per poter far combaciare tre
diverse attività insieme, e aumentare le cose che sarebbero dovute andar bene
per far essere tutto perfetto. Tra i vari banchetti, ce ne era uno che vendeva
torte vegane fatte in casa. Io ne compravo spesso una alla banana, che era
buona e dolcissima e che mangiavo in porzioni piccolissime, lasciando il resto
nello zaino, ritrovando spesso i libri e i quaderni invasi di briciole. Ma c’erano
anche altri due tipi di torte, e io volevo spesso comprarli, ma non riuscivo a decidermi.
Allora facevo una lista nella testa di tutto il cibo che avevo a casa,
suddividendolo mentalmente nei pasti dei giorni che mancavano prima di partire,
se stavo per partire, così da capire se avrebbe avuto senso o meno comprare una
torta in più.
In genere, per disperazione, prendevo solo una fetta di
torta. Soltanto una volta credo di aver avuto il coraggio di prenderne di più,
e avevo passato le giornate successive a disperarmi preventivamente sul cibo
che sarebbe andato sprecato per questa mia decisione sconsiderata.
Il panico e la perfezione sono grandi amici.
A volte, qui in montagna, mi ritrovo ad interrogarmi per dei
minuti infiniti su quale vestito mettermi per uscire in giardino. Quale va bene
per la temperatura? Quale va bene per la giornata di sole? Ma se il sole va via
e diventa nuvolo questo vestito non è più molto adatto. Quale va bene per il
caldo? E se poi fa freddo?
Qual è la cosa in assoluto migliore?
Molte volte sono stanca e non mi va di vestirmi e metto la
tuta. Mi sento molto felice. Oppure metto i vestiti del giorno prima. Oppure
sento una voce sicura nella mia testa che dice: “Mi va di mettere questa cosa
qui”.
Il panico e la perfezione sono grandi amici ma a volte il
panico si stanca della perfezione e quindi fa diventare tutto talmente tremendo
da spazzare via ogni briciolo di aspirazione alla perfezione. Quando il panico fa
così, io lo odio, ma un po’ mi sta anche simpatico. Lo capisco.
Gli voglio anche quasi bene a questo panico, quando fa così,
mi sembra un panico molto umano.
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