Il panico e il distacco
Quando andavo alla scuola materna piangevo tutte le mattine, appena mia madre mi salutava e andava via. Mi sembra di ricordarmelo, ma forse nel tempo ho solo iniziato a rappresentare nella mia testa i racconti fatti da mia madre.
Io e un altro bambino, poi diventato mio amico, Marco, siamo
in piedi davanti alla grande finestra della classe. Fuori ci sono mia madre e
sua madre che ci salutano. Marco piange silenziosamente, grossi lacrimoni
scendono sulle sue guance; io urlo disperata.
In effetti, forse questo è il ricordo di mia madre e non il
mio, perché nel mio avrei avuto davanti agli occhi l’immagine di mia madre e
della madre di Marco, non quella mia e di Marco. E invece in questa immagine ci
siamo noi davanti alla finestra, visti da fuori, dalle nostre madri, le quali,
ad un certo punto, se ne andranno, “sentendoci malissimo e cercando di farci
forza a vicenda”.
Ho iniziato a scrivere incerta tra due argomenti, il panico
del distacco e i ricordi, ed è successo che iniziando a parlare di uno sia emerso
anche l’altro.
Forse perché se parlo del mio panico del distacco trovo
tanti ricordi.
Sono sempre a scuola, ma questa volta sono più grande,
faccio la prima media. Sono arrivata davanti al portone e ho iniziato a piangere,
come racconto qui. Non è che non mi piaccia la scuola in sé, ma è quell’idea di
restare lì dentro e di staccarmi dal mondo che c’è fuori che mi fa sentire male.
E anche di staccarmi da casa mia; camminando per arrivare a scuola mi sono già
staccata da ben dieci minuti. Lungo il tragitto trattengo il fiato e inizio a
piangere, e quando arrivo a scuola voglio solo tornare indietro. Voglio tornare
dentro alla mia stanza con i miei libri e i giochi.
Ad un certo punto, dopo infinite chiamate della preside che
chiede ai miei genitori di venirmi a prendere, dopo giri per la scuola in
compagnia di un professore di informatica molto simpatico, dopo ore spese in
corridoio a guardare la luce del cortile, qualcuno, non so chi, ha un’idea: ho
il permesso di usare il telefono della segreteria per chiamare mia madre durante
la ricreazione.
Così, per tutti i restanti mesi di prima media, appena suona
la campanella della ricreazione io salgo due piani di scale, busso alla porta
della segreteria e compongo il numero dell’ufficio di mia madre. Non so cosa ci
diciamo, forse lei mi racconta qualcosa e io ascolto, poi attacco e ringrazio la
signora della segreteria. Non ricordo il suo volto ma mi pare che avesse i
capelli neri e un viso paffuto.
Poi scendo giù, più leggera e pronta ad affrontare altre ore
di scuola; ne restano poche.
Un giorno, quando salgo in segreteria, c’è un’altra signora
oltre alla solita segretaria simpatica e alle altre che lavorano lì. A questa
signora serve il telefono, mi sembra, oppure no, non ricordo, ma questa signora
non è d’accordo con le mie chiamate costanti a mia madre. Dice che non servono,
che sono ridicole, credo, che dovrei andare a giocare con i miei compagni. Io vado
in tilt, piango, la segretaria gentile mi fa usare il telefono.
Non so perché quella chiamata fosse così importante, ma era
come una piccola isola in mezzo al mare aperto che era il panico del distacco.
Il panico del distacco si appoggia a dei distacchi veri, ma
ci ricama sopra tante cose che non lo sono, o, più precisamente, che non sono
tangibili. Il panico del distacco invade lo spazio nel petto con sensazioni
fortissime. Si impossessa delle sere in cui si è lontani da casa e le fa
sembrare infinite e grandissime; si impossessa della luce del giorno e le dice di
brillare in un modo diverso dal solito, in un modo che è simile a quando si è a
casa ma non è la stessa, e fa male. Il panico per il distacco striscia dentro
alle cose e le fa apparire enormi e importanti. Rende insicuri i contorni. Il panico
del distacco fa diventare immenso ogni spostamento.
Quando dovevo partire per frequentare un master a Londra,
una mia amica, sentendomi raccontare tutte le mie paure legate al distacco, aveva
detto: “Guarda che non è che l’Italia affonda mentre tu sei lì, la ritrovi
quando torni, sempre uguale.”
In effetti è stato così. Con il tempo i distacchi hanno
perso un po’ del loro buio, ma la parola “partenza”, la domanda “quando parti?” hanno
sempre il potere di risvegliare una sensazione di perdita di contorni e di peso
nel petto.
Photo by Antoine Barrès on Unsplash
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