Il panico e le paure
Qualche settimana fa mia madre ha messo a posto dei cassetti.
La conseguenza è stata che ha iniziato a spedirmi foto su foto di quello che ha
ritrovato.
Mi ha mandato un Babbo Natale tremolante disegnato su una
tavoletta di legno.
Mi ha mandato il mio certificato di nascita in cui al posto del
nome c’era scritto soltanto F, perché lei e mio padre non avevano ancora deciso
come chiamarmi.
Mi ha mandato una poesia che avevo scritto in terza elementare,
La Regina del Mare, che parla della luna che è triste perché può vedere
tante cose ma non può vedere mai il sole. Mi ricordo quando l’avevo scritta,
nel quaderno con le pagine verdi che usavo per le storie, e l’avevo poi portata
a scuola per farla vedere alla mia maestra. Lei aveva detto che era bella e
poi aveva aggiunto: “Anche Carolina mi porta sempre a far vedere le poesie che
scrive” e io c’ero rimasta un po’ male, perché pensavo di aver fatto qualcosa di
molto speciale e unico.
Mia madre ha mandato dei ritrovamenti anche a mia sorella, ma
molti meno, in linea con quello che dico qui sul destino delle sorelle
minori.
L’ultima cosa che mi ha spedito è un foglio scritto al
computer. Risale a un po’ di anni fa, ma non so bene quanti, potrebbero essere
cinque o dieci. L’avevo del tutto dimenticato, ed è una cosa strana, perché in
genere ricordo le cose che ho scritto.
Il foglio inizia così:
Ho paura la mattina quando apro gli occhi e allora inizio
a urlare.
Ho paura a metà mattina perché il cielo è grigio. Allora vado
in giro lanciando sguardi ancora più grigi, quasi neri.
Ho paura a pranzo perché c’è troppo cibo nel mio piatto. Inizio
a lanciarlo contro il frigorifero.
Ho paura a metà pomeriggio, perché ci sono troppe
pozzanghere per la strada. Ci salto dentro e schizzo il primo che passa, così
mi sento meno sola.
Ho paura la sera, perché il cielo cambia colore e non
capisco più dove sono. Mi chiudo dentro l’armadio per un po’.
Quando ero più piccola andavo in giro ripetendo: “Ho paura.”
Qualche volta capita ancora adesso. Non so bene di cosa, in realtà. So solo che
mi ritrovavo a ripetere questa frase nella testa, quasi in automatico. La ripetevo
a bassa voce, a me stessa, ma se mi sbagliavo e la pronunciavo troppo forte,
oppure se c’era molto silenzio, accadeva che qualcuno mi chiedesse: “Di cosa?”
e io non lo sapevo.
Mi ricordo una mattina di tanti anni fa, credo nove o dieci,
in cui mi sono svegliata, abitavo a casa dei miei genitori, c’era il cielo grigio.
Non avevo grandi programmi per la giornata, mi sembra, il ragazzo con cui stavo
non si era fatto sentire, mi sembra. Entrambe le cose erano abbastanza frequenti.
Ma ricordo che quella mattina andavo in giro per la casa a ripetere: “Ho paura”
e ad urlare. Forse per urlare via la mia paura, forse per fare così tanto
rumore da non ascoltarla.
Non ricordo altro di quella mattina. Non ricordo cosa ho
fatto dopo, che pensieri avevo nella testa, come avevo dormito. Ricordo solo
questo senso incombente di qualcosa senza nome. Qualcosa senza nome che però
sentivo in modo chiarissimo, ma diventava senza nome appena provavo ad
articolarlo e a farlo uscire fuori. Qualcosa senza nome che sfuggiva al
linguaggio. Qualcosa senza forma compiuta, senza una descrizione precisa e i
contorni definiti, ma che, proprio per questo, si infilava tra i buchi del
respiro e tra me e il cielo grigio.
Il foglio continua e parla del personaggio di una storia che
stavo scrivendo, perché, a quanto pare, tutte queste paure le avevo riferite a
lei.
Poi il foglio finisce così:
Ho paura la notte, quando il cielo è nerissimo, quasi
blu, e ho paura che la luce si dimentichi di arrivare. Allora esco sul balcone
ed inizio a ballare. So che non cadrò di sotto, ne avrei troppa paura.
Photo by Branimir Balogović on Unsplash
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