Una persona vera
Quando è nata mia sorella ero contenta perché anche io potevo appendere un cartellone sulla porta della classe.
Mia madre lo conserva gelosamente e ogni volta che lo vede si commuove, costringendomi a guardare dall’altra parte. C’è scritto “è nata Sabina” nella grafia sicura della mia maestra e c’è il disegno tremolante di una faccia tonda con gambe e braccia attaccate, fatto da me.
La cosa bella del cartello appeso in cima alla classe era che tutti lo potevano vedere. Le madri, i padri, i nonni, i bambini delle altre classi, i genitori dei bambini delle altre classi, i nonni dei bambini delle altre classi. Era lì, al centro, e anche io ero al centro dell’attenzione. Fiera. Avevo una sorella, il metro più diffuso per valutare il proprio status alla scuola materna. Anche un fratello, certo, ma una sorella era meglio. Avrebbe avuto dei vestiti carini e avrebbe giocato con me alle bambole, magari facendo lei stessa la bambola.
Quando sono nata, nella clinica eravamo solo tre bambini. Lei, invece, nata in ospedale, stava in un nido pieno di neonati urlanti. Si riconosceva solo per i capelli, tantissimi, rossi e sparati in testa stile punk. In quanto secondogenita, mia sorella non ha avuto cose come un libro di nascita completato diligentemente da mia madre. Mia sorella ha iniziato a compilare il suo da sola, a cinque o sei anni, dopo averlo trovato vuoto in un cassetto pieno di cose mie. Quando si sente particolarmente in vena di rivendicazioni lo tira fuori. Mia madre e io scoppiamo sempre a riderle in faccia alla vista delle pagine compilate dalla sua scrittura da bambina.
Mia sorella ha meno della metà delle foto che ho io sparse per la casa dei miei genitori. Su questo mia madre le dà ragione, ma poi non fa assolutamente nulla per bilanciare. Anzi, ha aggiunto la foto della mia laurea in una grande cornice in salotto.
Quando è nata mia sorella ho realizzato che c’era un essere più piccolo di me, non per forza simpatico, ma con i miei stessi diritti. Alla sua nascita, mia madre e i miei zii mi hanno ricoperto di regali. Avevano tutti paura che io cercassi di ucciderla mentre dormiva. Secondo i racconti di mia madre, non ho mai davvero cercato di ucciderla. Secondo i filmini di mio padre, più di una volta ho tentato di sollevarla dal lettino in modi improbabili (dove i filmini si interrompono perché mio padre giudicava fosse arrivato il momento di intervenire). Ma a parte questo, pare che io avessi reagito bene. Era un essere di certo non innocuo (aveva capito presto che la sua arma più potente erano i denti, e aveva imparato ad usarli molto bene: i segni dei suoi morsi rimanevano per ore. Quando lo dicevo a mio padre, la risposta era: che hai fatto per farti mordere? E ci rinunciavo) ma neanche troppo malvagio. Era di compagnia.
Poi è diventata una persona. Non più solo un essere chiamato sorella, ma una persona che fa delle cose, come tutte le persone; che fa discorsi che potrei anche prendere sul serio (e che prenderei sul serio, se non venissero da mia sorella). Poi mi è capitato di parlare con persone che sono addirittura più piccole di mia sorella. E questa è stata una cosa difficile. Per me le persone dell’età di mia sorella o addirittura più piccole non sono persone vere.
L’unica cosa vera è che le sorelle piccole saranno sempre piccole e quelle grandi, grandi. Non solo una rispetto all’altra, ma in generale. Io per mia madre sarò sempre in grado di cavarmela da sola, mia sorella avrà sempre bisogno di essere aiutata.
Ho cercato di combattere la cosa, ma è inutile. La frase “non la trattare così, lei è più piccola” continua a perseguitarmi.
Come continua a perseguitarmi l’idea che dovrei essere un esempio.
Quando ero piccola mia sorella voleva sempre mangiare davanti a me, cioè voleva che il suo seggiolone fosse messo davanti a me mentre lei mangiava, ovvero faceva schifosissimi intrugli con il cibo. Mia madre diceva: “Vedi, che bello, vuole stare di fronte a te”. A me faceva piacere, ma anche un po’ schifo. Però mi faceva sentire importante. Ero un esempio. Ed è qui che avere una sorella minore ti frega. Cerchi sempre di essere di esempio.
All’inizio è facile, è l’esempio di come usare le posate, ma poi diventa come si va a scuola, come si fanno i compiti, come si parla con le persone. Dopo anni di esperienza ho deciso che la soluzione migliore è il nulla.
Non essere un esempio. Non dare consigli. O darli sotto forma di opinioni personali su questioni generali (solo così c’è qualche speranza che lei li ascolti, dato che chiaramente non ascolta i miei consigli, in quanto miei consigli). Negli anni ho perfezionato questa tecnica e credo di essermi avvicinata ad essere un esempio totalmente neutro con sfumature negative. Questo mi rassicura molto.
(Questo articolo è stato pubblicato sul Foglio il 5/07/2019 )
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